Divi in carrozzina al Torino Film Festival per Piovono mucche. Il secondo italiano in concorso, una commedia senza compatimenti sulla vita di un variegato gruppetto di obiettori a contatto con l’umanità anche aspra di tetraplegici o spastici, ha portato una serie di imprevisti nella vita ordinata del festival, ma anche una ventata di inattesa allegria. Perché, come ha detto uno degli attori, “il disabile non è una persona buttata”. Conferma, col suo contagioso entusiasmo, Luca Vendruscolo. Regista e sceneggiatore, ma soprattutto protagonista di un’immersione nella casa famiglia Capodarco – trasformata nella finzione in comunità Ismaele – da cui è poi nato il film. “Era il ’93, scelsi il servizio civile: speravo di imbucarmi in un ufficio polveroso, invece mi precettarono e mi spedirono a lavorare un anno con gli handicappati alla periferia di Roma. Una scoperta che mi ha cambiato la vita”. Vendruscolo, che è nato a Udine nel ’66, è diventato sceneggiatore al Centro sperimentale, e proprio con lo script di Piovono mucche ha vinto il Premio Solinas nel ’96.
Cosa hai scoperto in quell’anno passato in comunità?
Che quello che ci fa paura è solo un fantasma. Quando hai a che fare con certi liquidi organici, come si vede in una scena del film, capisci che aveva ragione San Francesco: più fai cose umili, più trovi te stesso. Ma fuori da lì tutti cadevano dalle nuvole, nessuno sapeva dell’esistenza di un mondo del genere. Così ho deciso di parlarne.
I disabili ti hanno insegnato molto.
Innanzitutto che si poteva scherzare sull’handicap. I disabili sono persone molto smagate, non vogliono essere trattati con gentilezza o con le molle. La loro psicologia dipende solo in parte dalla disabilità: c’è la vive al 90%, chi considera la malattia il 10% di se stesso.
Da dove arriva il titolo?
Da una paziente piuttosto grave di un centro diurno. Le chiedevano “che tempo fa oggi?”, un po’ per riportarla alla realtà. E lei una volta rispose “piovono mucche”. Mi piace la metafora: una mucca è materna, ma se ti piove addosso è pesante, può farti male.
Il Solinas l’avete vinto nel ’96, il film è arrivato nel 2002. Come mai?
Tutti ci dicevano che i disabili non attirano. Poi abbiamo incontrato Gianluca Arcopinto: a lui la sceneggiatura è piaciuta, ma sul set era un po’ spaventato e ci ha imposto un tetto di disabili… a parte gli scherzi, credo sia stato giusto associare attori professionisti e non attori, una specie di guard-rail.
Non hai censurato la sessualità. Anzi.
E’ un mondo sensuale, direi erotico. Nei momenti di grande intimità c’è una specie di fusione. Spesso nascono storie tra disabili e non, poi magari non è detto che durino. Ma questo è un altro discorso.
E la scelta di fare una commedia?
Mi sembra che la durezza della condizione del disabile sia già stata rappresentata, mi interessava far vedere che loro sanno anche divertirsi e che si pongono i problemi di tutti gli altri: il lavoro, i sentimenti, la convivenza.
Tornerai ad affrontare questi temi?
Il cuore mi porterebbe a scrivere “Tempesta di vacche”. Le storie che ho raccolto nell’ambiente sono veramente infinite.
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