È il giorno della rivincita per Luca Guadagnino. Un regista spesso snobbato in patria – considerato forse troppo internazionale e “borghese” – che oggi, forte di quattro candidature all’Oscar, tra cui quella come miglior film, si gode un bagno di folla. Siamo all’Hotel de Russie, dove ha dato appuntamento ai giornalisti insieme ai suoi due attori, Timothée Chalamet e Armie Hammer. Chiamami col tuo nome sta per uscire anche in Italia con la Warner. E la prospettiva attorno al suo autore è completamente cambiata. Il suo immaginario, sensuale, astratto, per molti versi filosofico, sicuramente non banale, ha conquistato colleghi di grande prestigio come Pedro Almodovar e Paul Thomas Anderson, che considerano il suo film tra i migliori dell’anno. Questa storia di giovanile desiderio che sboccia nel corso di una lunga estate tra il diciassettenne Elio e un giovane studioso americano anche lui ebreo, in visita a casa sua, ha emozionato il pubblico negli Stati Uniti.
Eppure Call me by your name, a dispetto delle apparenze, è un film in parte italiano, oltre che americano e francese, prodotto con il contributo del ministero dei Beni Culturali. Anche di questo si parlato sui social network, a volte con toni polemici, mentre il quotidiano ‘Il Tempo’ si è fatto notare per un titolo strillato in prima pagina: “Dopo immigrati e rom l’Italia guarda all’Oscar con i gay”. Piccole polemiche di casa nostra, ma il clima dell’incontro con il 46enne regista è invece rilassato e piacevole, con i due attori che fanno a gara a complimentarsi con lui, entusiasti dei ruoli cuciti su di loro. E, seduto tra i cronisti, c’è anche il montatore Walter Fasano, anche co-sceneggiatore del film insieme a James Ivory (che è candidato da solo perché in America è accreditato come unico autore dello script). Intanto Guadagnino ha appena terminato di girare il remake di Suspiria (”non è un vero e proprio remake, ma un film diverso e più dark”) e sta già lavorando a Rio con Jake Gyllenhaal, Michelle Williams e Benedict Cumberbatch.
Su Chiamami col tuo nome leggi anche il nostro articolo dalla Berlinale.
Guadagnino, come si sente ad aver portato a casa la candidatura a miglior film? Era dai tempi de La vita è bella di Benigni che non capitava a un film italiano.
È strano e molto bello. Per fortuna sono già nel mezzo di un altro film e riesco a mettere le cose in prospettiva. In più non ho facebook o twitter, quindi sono fuori dalla mischia mediatica.
Lei è stato coinvolto in questo progetto gradualmente e in un certo senso per caso. Ci ricorda come sono andate le cose?
I produttori americani avevano preso diritti del romanzo di André Aciman, romanzo che si svolge in Italia, in Liguria, e mi chiesero una consulenza. In quel periodo – era il 2009 – stavo preparando Io sono l’amore, ed ero a Bordighera. Nel corso del tempo abbiamo pensato a vari registi: Gabriele Muccino, Sam Taylor-Johnson, lo stesso Ivory. Poi, dopo nove anni, è sembrato giusto che lo facessi io, tra l’altro con un budget limitato.
Come ha scelto i due interpreti?
Avevo visto Timothée Chalamet nella serie Homeland e in Interstellar e quando l’ho incontrato, grazie al suo agente che è lo stesso di Tilda Swinton, mi è sembrato da subito Elio, mentre Armie Hammer mi era piaciuto particolarmente in The Social Network.
Qual è stato il percorso, ricco di premi e riconoscimenti, che ha portato il film a queste quattro candidature? Si aspettava questo successo?
È stato un percorso lungo, come il mio personale del resto. La storia di questo film è iniziata al Sundance l’anno scorso, con Walter Fasano eravamo convinti di aver fatto un bel film ma non ci aspettavamo un’accoglienza simile. Per noi è stato innanzitutto un piacere farlo, nel nome di un cinema che io amo e da un angolo d’Italia unico come la campagna della bassa Cremasca.
Lei si sente isolato all’interno del cinema italiano, un outsider come qualcuno la descrive?
Ho molti amici tra i cineasti italiani, come testimonia la foto che Gabriele Muccino ha postato su twitter. Per la formazione del mio immaginario ho sempre visto il cinema in modo trasversale, mi hanno influenzato soprattutto le Nouvelle Vague, quei movimenti che hanno rivoluzionato il cinema ovunque nel mondo. Insomma, ho rapporti con parecchi cineasti, tra cui anche tanti italiani. Ai Golden Globe Christopher Nolan mi si è avvicinato e mi ha detto una cosa che mi ha fatto un enorme piacere: che considerava impressionante il modo in cui avevamo messo in scena gli anni ‘80 nel film.
Il film è in qualche modo un romanzo di formazione: racconta la scoperta della sessualità e dell’amore da parte di un giovane uomo molto colto e sensibile.
È un film che ha qualcosa di particolare, ricevo molte lettere di persone di ogni tipo, uomini e donne, giovani e anziani, che mi dicono che Chiamami col tuo nome li ha trasformati, li ha aiutati a risolvere dei nodi emotivi. Credo che sia perché è un film sull’empatia, sulla capacità di vedersi con lo sguardo dell’altro, una cosa di cui abbiamo estremamente bisogno specie in una contemporaneità come la nostra arrabbiata e separata.
Lei è cresciuto a Palermo. Le è rimasto qualcosa di questa città?
L’inconscio non mente e il nostro passato ci trapassa. Da Palermo, che è un luogo sensuale e violento, ho appreso, credo, il senso della sensualità.
Se avesse dovuto girare Chiamami col tuo nome con attori italiani chi avrebbe scelto?
Sono privo di fantasia. I personaggi del film sono americani e non posso immaginare degli italiani al loro posto. Però ci sono attori italiani straordinari in questo film, come Elena Bucci e Marco Sgrosso.
È vero che sta pensando a un sequel?
Ho sviluppato una grande passione per questi personaggi. Quando ero a Berlino, vedendo il film con il pubblico, ho avuto la sensazione che le loro vite, nella loro semplicità fenomenica, possano dirci qualcosa di noi. Forse potrei continuare a raccontare la loro crescita seguendo la lezione di Truffaut e di un personaggio come Antoine Doinel.
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