Molti, all’ultima Mostra di Venezia, si aspettavano la Coppa Volpi al protagonista Caleb Landry Jones, intenso interprete di Dogman. Ma il regista Luc Besson minimizza: “Sono le giurie a decidere, del resto non ho visto Memory, il film che ha vinto per l’interpretazione maschile e quindi non posso giudicare. Faccio cinema da quarant’anni e non mi aspetto niente. So che il film piacerà a qualcuno, qualcun altro lo odierà, qualcun altro non andrà neppure a vederlo. Va bene così”.
Incontriamo – via zoom – il regista francese 64enne, autore di cult come Léon e Il quinto elemento, a pochi giorni dall’uscita in sala, con Lucky Red il 12 ottobre, del suo nuovo film, una storia sorprendente e piena di emozioni con al centro un uomo solo ed emarginato e una muta di cani di ogni taglia e razza.
Douglas è un underdog, un ragazzo cresciuto da un padre violento e spietato che lo chiude nella gabbia dei mastini da combattimento. Vuole punirlo perché ha il cuore tenero e lo rende un disabile, bloccato su una sedia a rotelle, disadattato ma anche capace di cose straordinarie, di slanci assoluti e di creatività. Ha decine di cani che lo obbediscono in tutto e capiscono ogni sua parola: con loro organizza furti acrobatici in ricchi appartamenti (“per redistribuire la ricchezza”), vendica i soprusi di qualche gang locale e condivide ogni cosa, anche la cottura di una torta. Douglas ama il teatro e in particolare Shakespeare, si esibisce en travesti in un locale notturno reinterpretando brani di Edith Piaf, Marlene Dietrich o Marilyn Monroe. Un ruolo complesso e variegato, un po’ alla Joker, per l’attore e cantante Caleb Landry Jones.
Come ha scelto Caleb?
Temevo che non sarei mai stato in grado di trovare un attore così folle da fare questa parte. Poi ho visto Caleb e ho pensato che fosse camaleontico. E’ umile, dolce, ama la musica. Abbiamo preso il tè un paio di volte e poi gli ho chiesto se gli piacevano gli animali. Dopo qualche mese di preparazione è arrivato sul set che aveva già il personaggio. Lo potrei paragonare solo a Gary Oldman in Léon, un mostro di talento.
Come è stato lavorare con un centinaio di cani sul set?
E’ come fare il marinaio, il mare è diverso ogni giorno e bisogna adattarsi velocemente. Selezionarli è stato un processo piuttosto lungo, durato tre mesi. Avevamo dei cani che arrivavano con i loro addestratori. Alcuni non andavano d’accordo e li ho dovuto cambiare, dopo due mesi abbiamo ottenuto un bel gruppo coeso. Non mi aspettavo che ci fossero 25 addestratori, ciascuno lavora solo con due cani, e ciascun cane reagisce solo alla voce del suo padrone.
Douglas è un emarginato in cerca di riscatto che trova negli animali una comprensione e complicità totale. Una bella metafora di inclusione.
Ciascuno di noi, nella sua vita, ha perso qualcosa o qualcuno. Ma bisogna vedere come si reagisce al dolore. Se ti fa diventare migliore o peggiore. Douglas cerca di essere buono nonostante tutto. E’ lui ad aiutare la psicologa, e non viceversa. Ho cercato di riflettere su che cosa puoi diventare se cresci in una gabbia in mezzo ai cani. Diventi un terrorista o Madre Teresa? La società occidentale pretende di essere aperta e accogliente, ma in realtà tutte le persone diverse vengono escluse. Tuttavia i “diversi” si riconoscono tra loro e si avvicinano. Così fa Douglas con la sua insegnante di recitazione, i cani, le drag queen… i diversi hanno una maggiore capacità di accettare la diversità. Mia madre e mia nonna mi hanno insegnato che la diversità è una ricchezza. Sono cresciuto in giro per il mondo, al seguito dei miei genitori che erano due subacquei. Fino a 9 anni non sono andato a scuola, vivevo a contatto con la natura ed ero molto poco a contatto con la società.
Uno dei temi del film è quello, purtroppo molto attuale, della violenza in famiglia, vista da una prospettiva inedita.
Tutto nasce da una storia vera. Ho letto l’articolo e ho pensato che nessuno nasce delinquente, ma lo diventa a causa delle circostanze. Da dove viene la violenza? Dalla società. Perché un padre normalmente ama i suoi figli e li protegge. In Francia, come in Italia e negli Stati Uniti, molte persone impazziscono. Io sono un artista, non un politico, non do giudizi. Forse una risposta è nel radicalismo religioso. Certo che Douglas è un ragazzo sensibile che non fa nulla di male.
Una risposta è l’arte, la performance mantiene in vita Douglas, dà un senso alla sua vita.
Senza arte siamo perduti. E’ così da sempre, fin dalle pitture rupestri. Milioni di persone vanno a Louvre ad ammirare la Gioconda. Anche in tempi di guerre, il legame tra le persone è dato dall’arte, dalla cultura. Oggi tutto ciò è più importante che mai. Non è il denaro a salvarci, ma piuttosto un dipinto.
Lei ha spesso raccontato personaggi che si difendono dal mondo circostante attraverso una violenza in qualche modo legittima o che viene da lei legittimata.
La violenza è solo una conseguenza della miseria, della fame. In natura gli animali aggrediscono per difendersi e per procurarsi il cibo.
Cosa pensa del dogma del politically correct che ormai domina il cinema, specie americano?
L’arte è una sfera di libertà. In un dipinto possiamo usare le forme e i colori che vogliamo. Immaginate se quando Picasso ha dipinto un naso al posto delle orecchie gli avessero detto che sbagliava. Lasciate che gli artisti prendano dei rischi, che aprano le porte per permetterci di vedere oltre.
In un certo senso il film ci dice che gli animali sono migliori di noi.
E’ proprio così. Noi sappiamo tutto, abbiamo migliaia di informazioni e nozioni, ma l’unica cosa che sappiamo fare è guardarci allo specchio e farci un selfie. Io cammino per strada, osservo le persone e gli alberi. Non metto i soldi al primo posto.
Douglas canta Je ne regrette rien di Edith Piaf. E’ una dichiarazione di intenti?
Per le scene del cabaret avevo una lista di artisti che Douglas poteva impersonare restando in piedi immobile. Non poteva certo imitare Madonna, ma Edith Piaf era perfetta. E tra le sue tante canzoni, Je ne regrette rien era la più adatta alla storia. Quel ragazzo, con tutto quello che ha sofferto, non rimpiange nulla.
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