LOCARNO – Biscotto, Banana e Bambolina, a parte possedere soprannomi fantasiosi tra infanzia e golosità (mentre il contesto è tutt’altro che zuccheroso) hanno in comune l’essere adolescenti e, soprattutto, un conflitto: essere “separati”, esattamente come le loro famiglie, connesse alla criminalità organizzata. Ma… un giorno: sorpresa! La scoperta di una scatola piena di petardi: sarà la resa dei conti?
Con l’animazione predominante e con il formato breve (14 min), Loris G. Nese è l’unico italiano nella selezione Pardi di Domani: Concorso Internazionale, e il film è qualificabile come cortometraggio candidato del Locarno Film Festival agli European Film Awards; il corto è stato anche premiato, in fase di sviluppo, al Bellaria Film Festival, con il premio di Cinecittà per il mix audio, pertanto la post produzione audio è stata realizzata negli Studi di Via Tuscolana.
Z.O. sta per “Zona Orientale” e quella di cui si parla è la medesima di Salerno, perché questo film è (anche) un film di denuncia, di constatazione dell’abuso edilizio e dell’affigliazione camorristica, del soffocamento di un territorio e della sua storia.
Loris, pennelli, disegno a mano e sequenze dal vivo: il film si classifica come ‘animato’ ma possiamo affermare sia in tecnica mista; è presente anche un filmato d’archivio del 1983, realizzato dal sindaco di Salerno, Vincenzo Napoli. Qual è stata la necessità dell’uso di questa tecnica per l’efficacia di questa storia?
Il motivo è molto preciso: all’inizio abbiamo ideato il progetto come animazione tradizionale; il nostro lavoro precedente, Malumore, era una sintesi precisa del 2D puro, pennello su carta, contrasto tra ombre e luci, ed è da quello da cui siamo partiti. Poi, in corso d’opera abbiamo ricercato e sperimentato e c’è venuta un po’ meno la resa fotografica di alcuni luoghi, perché raccontando una precisa parte della città, che a Salerno ha un valore molto particolare, ci sentivamo un po’ stretta l’idea di avere solo disegni che riproducessero, allora siamo tornati sul set, filmando il corto come si farebbe con un qualunque film live action – tre attori, location predefinite, la scenografia – per poi trasformarlo in animazione; il film è stato montato in live action, una volta finito tutti i frame sono stati stampati e ridisegnati a mano, o comunque trattati con degli interventi manuali, dopodiché sono stati scansionati e rimontati fino al risultato finale.
Per le sequenze animate, la sua scelta estetica è precisa: bianco&nero, assenza di colore o quasi.
La lavorazione è stata abbastanza particolare, come anche per il filmato d’archivio che citava prima, quello non l’avevamo in mente sin da subito: avevamo praticamente finito il film, ma guardandolo sentivo il bisogno di contestualizzare la zona anche per chi non la conoscesse, proprio perché per me, che sono cresciuto lì, ha un significato particolare; così Chiara Marotta – montatrice e produttrice del film – è riuscita a trovare questo bellissimo filmato d’archivio, e facendo una serie di selezioni e interventi di editing è riuscita a ricostruire in maniera abbastanza immediata questa zona; in particolare, poi c’è una frase nel film, che dà un po’ il là per arrivare alla transizione animata, quando la voce narrante parla di ‘…una città di cartone’, perfetto per noi che volevamo fare un corto animato; il bianco&nero serviva un po’ ad aumentare questo contrasto: è stata una scelta che derivava da prima, nel corso dei vari test avevo capito mi piacesse raccontare con un’atmosfera senza tempo, per quanto sia collocato negli Anni ’90 in maniera precisa, però era un modo di astrarre ulteriormente questo contesto.
Oltre a quello che si guarda, c’è anche quello che si ascolta e per questo aspetto ha scelto una voce specifica, quella di Francesco Di Leva, che narra e impersona Bambolina: perché la scelta del racconto dal punto di vista ‘del più debole’ – o meglio, del figlio dell’uomo per cui il padre di Biscotto era finito in carcere per omicidio: ‘nel senso che mio padre era la vittima dell’omicidio, ma io ancora non lo sapevo’?
Il film nasce da una lunga osservazione spontanea fatta nel tempo, nel senso che a me personalmente è capitato spesso di incontrare figli di persone che hanno una storia particolare legata ai temi che abbiamo trattato: mi sembrava particolarmente interessante raccontare non tanto il punto di vista di chi è consapevole della famiglia a cui appartiene, ma di chi lo scopre in corso d’opera, o comunque non è pienamente cosciente di dove sia il confine; Bambolina è uno di questi: capisce i legami della sua famiglia con la criminalità organizzata quando è lui stesso a incrociarla, cosa anche questa molto frequenta nella realtà, quindi mi sembrava, un po’ in maniera istintiva, fosse interessante ‘stare dalla sua parte’. E poi penso che la sua posizione sia particolare perché è un po’ un’iniziazione o nasconde questa possibilità, perché lui passa dall’essere in una posizione di debolezza a una diversa. Il film gioca anche su questi equilibri molto delicati e sulla linea di confine tra una posizione e l’altra.
E perché proprio il suo timbro era quello perfetto per aggiungere valore alla sua storia?
Francesco Di Leva, semplicemente, è un attore che ho sempre amato, di cui m’è sempre piaciuto il suo timbro: giocando tutto sulla voce, la sua, per nulla pulita e molto graffiata, mi sembrava perfetta. Aveva l’età giusta per essere credibile e in corso di sceneggiatura abbiamo fatto piccoli aggiustamenti temporali proprio per far in modo che potesse essere adatto ancora prima di coinvolgerlo. Ho sempre pensato a lui già mentre scrivevo. Poi c’è una connessione che va oltre il piano cinematografico, che ha caratterizzato il nostro incontro: lui viene dalla cosiddetta ‘Napoli Est’, la zona orientale di Napoli, ed è stato particolare raccontarci un po’ le nostre esperienze prima di girare, perché ci chiedevamo per esempio come mai siano tutte zone orientali, seppur molto diverse, con distanze diverse rispetto al centro, ma racchiudano però gli stessi valori e uno stesso, problematico, senso di appartenenza, perché riusciamo a riconoscere gli aspetti negativi, però poi ci portiamo dentro un fortissimo senso di fierezza, quasi.
Per una storia di contrasto, di conflitto, sceglie per i suoi personaggi tre soprannomi deliziosi, Bambolina, Banana e Biscotto appunto: siccome oltre che regista e animatore è anche sceneggiatore, ci spiega il perché di questa nomenclatura? Gioco di contrasti o cos’altro?
Il contrasto c’è sicuramente ma non è mio, quanto piuttosto tipico della criminalità organizzata, l’assumere nomignoli spesso in opposizione con i ruoli che si prendono; in particolare, per Biscotto e Bambolina c’è stata una ricerca: Biscotto è un soprannome che anche alcuni miei amici crescendo hanno assunto, è abbastanza frequente, e per Bambolina volevo fosse un nome che nascondesse anche un segno di vergogna, che fosse oggetto di schermo, lui viene chiamato così in maniera derisoria, come dice all’inizio del film, per un particolare taglio di capelli; poi, anche se non fa espressamente parte del film, mentre all’inizio si delineavano i personaggi avevo supposto li avessero ereditati dai loro genitori e quindi avevo addirittura ipotizzato che il padre di Bambolina si chiamasse Oken, come il compagno di Barbie; Banana: anche questo è molto frequente in Campania e mi sembrava preciso per un personaggio-spalla di entrambi, e il soprannome lo caratterizzava in maniera più neutra. Quello che poi faccio, comunque, in fase di ricerca è cercare di non associare mai i miei personaggi ad altri realmente esistenti, cerco di non creare richiami.
Z.O. è una storia di contrasto ma anche di appartenenza a qualcosa, lo fa dire espressamente a Bambolina nel finale: appartenenza a… una stirpe, a una mentalità, a una città. Nelle sue intenzioni, vuole essere una storia di constatazione, di denuncia, di desiderio di riscatto?
La mia idea era partita dal voler raccontare una storia di formazione, mi interessava raccontare quel momento di passaggio in cui s’inizia a definire in maniera significativa ‘bene’ e ‘male’, ma altrettanto non si hanno ancora gli strumenti per prendere una precisa posizione. S’è aggiunto il mio desiderio di raccontare quella zona della mia città, e ho anche in mente di raccontarla ulteriormente perché è molto caratteristica: chi è della Zona Orientale e deve andare per qualche ragione al centro non dice ‘vado al centro’ ma ‘vado a Salerno’, come se si trattasse di un altro luogo, ma a farla a piedi ci vogliono nemmeno trenta minuti, quindi è una distinzione ideologica che nasconde delle differenze sostanziali. Mi sembrava interessante raccontare la marginalità sociale, m’interessa spesso.
Z.O. è stato appunto prodotto e montato da Chiara Marotta, con cui da tempo siete una coppia artistica: prossimi progetti sui state lavorando?
Loris: Sì, stiamo lavorando a un lungometraggio documentario, che approfondisce dei temi legati anche al film e comunque alla Zona Orientale; poi, entrambi abbiamo in sviluppo due lungometraggi di fiction, il mio potrebbe essere un prequel di Z.O., nel senso che racconta l’infanzia di un ragazzino, in particolare il rapporto tra due fratelli, che devono affrontare la scomparsa improvvisa del padre e si trovano a fare i conti con alcuni fantasmi legati al loro passato.
Chiara: Lapazio Film produce sempre i nostri progetti, la società di produzione di Salerno con cui da un po’ di tempo stiamo raccontando la nostra città, per cui ci piace ambientare lì le storie, lavorare con troupe campane.
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