Una pièce francese, Le Prénom di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, che aveva già ispirato una commedia di un certo successo… Quella Cena tra amici è diventata adesso, nella scrittura di Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, una storia tutta italiana, dove in una stessa famiglia – alla Scola – si ritrovano le contrapposizioni tipiche di un intero paese, una sinistra che sa da dove viene ma non sa dove andare, una borghesia rampante e cialtrona, qualunquista più che di destra, una classe intellettuale impotente e presuntuosa, un mondo radical chic dove vivere tra il Mandrione e il Pigneto “gentrificato” e chiamare i pargoli Pim e Scintilla, fa tendenza. Ecco Il nome del figlio, in sala con 280 copie dal 22 gennaio con Lucky Red. Qualcuno lo ha paragonato a un Carnage all’italiana, “in realtà – dice la regista, tornata sul set a più di sei anni da Questioni di cuore – qui c’è meno rabbia e molto più amore”.
E’ l’amore che lega da sempre Paolo e Betta, fratello e sorella, agli amici Sandro e Claudio. Betta (Valeria Golino), una prof tutta protesa a far andar bene la sua vita familiare, ha sposato Sandro (Luigi Lo Cascio), docente universitario che sfoga le sue frustrazioni su twitter. Paolo (Alessandro Gassmann), da sempre la pecora nera della famiglia, ha scelto una strada opposta. Fa l’agente immobiliare e ostenta Bmw e Rolex oltre che Simona (Micaela Ramazzotti), la bellezza di periferia che ha sposato. Lei ha appena pubblicato un best seller piccante e che sta per dargli un figlio. Completa il quadro l’amico Claudio (Rocco Papaleo), un musicista eternamente single, forse gay, che è anche il confidente dei segreti e dei crucci di Betta.
I cinque si ritrovano a cena per festeggiare la gravidanza ma quando Paolo dice che il nascituro si chiamerà Benito apriti cielo. Si scatena una bagarre verbale in cui in breve le ipocrisie che tengono in precario equilibrio i rapporti nel gruppo si sgretolano. Un film corale in cui ciascuno dei cinque attori, quattro dei quali anche registi in proprio, ha il suo assolo, mentre poi tutti si ritrovano a cantare Telefonami tra vent’anni, hit di Lucio Dalla che data 1981. “Abbiamo fatto un lavoro pignolo di costruzione – spiega la regista romana – ma poi c’è stato spazio per improvvisare. La pièce teatrale ci ha dato i puntelli giusti, noi ci abbiamo messo carne e sangue”. Per Francesco Piccolo, sceneggiatore anche di Nanni Moretti, “la storia c’era già, ma i personaggi ce li siamo ricreati noi, cercando qualcosa che ci appartenesse. Abbiamo trasformato ogni singolo personaggio in qualcuno che conoscevamo, che ci assomigliava, che avremmo voluto essere o non avremmo voluto essere, che forse siamo senza accorgercene. Per poter parlare male di noi e allo stesso tempo guardarci con tenerezza, avevamo bisogno di una colonna vertebrale sulla quale operare”.
Logico che scatti il gioco a identificare questa famiglia radical chic, i Pontecorvo. Ebrei e comunisti, ricchi ma impegnati, con tutte le contraddizioni del caso. Il film insiste sui flashback, le vacanze nella villa in Toscana dove i cinque protagonisti, allora ragazzini, sembrano avere i destini già tracciati. Prodotto da Indiana Production e Lucky Red con Rai Cinema e Sky, MiBACT e Motorino Amaranto, il film sta molto a cuore a Paolo Virzì, produttore e “presidente del Francesca Archibugi fan club”, come scherzosamente si autodefinisce. E la pellicola si chiude proprio con il vero parto di Micaela Ramazzotti, la nascita della piccola Anna Virzì, un cesareo che Francesca Archibugi ha filmato personalmente con le lacrime agli occhi e la videocamerina tremante. “Io e Paolo – dice la regista – non ci conosciamo da oggi, sono anni che ci scambiamo i copioni e chiacchieriamo. Formiamo un bel gruppo che, ultimamente, per esempio, ha scritto una catena di email per mettere insieme l’appello al ministro della Sanità contro il divieto di fumo nei film”. E aggiunge: “Il cinema italiano ha un’identità, ma se ne rendono conto più all’estero che da noi, dove siamo visti male. Veniamo dopo i grandi ed è un po’ come venire dopo il Rinascimento. Ma noi combattiamo per fare film per la sala. Cerchiamo di perdere vanità narcisistiche e autoriali, perché il mercato è quello che è”.
La voglia dunque era quella di realizzare una commedia non snob, per raccontare un sentimento diffuso. “Raccontare, mai giudicare. Come diceva Jean Renoir tutti hanno le loro buone ragioni. Ed io non ho mai ho parlato per bocca di un personaggio, che sarebbe per un narratore la cosa più disdicevole da fare”, dice ancora Archibugi, che nel film cita anche l’amato Cechov. E aggiunge Piccolo: “Abbiamo visto in questo film un mezzo di trasporto per parlare di una cosa che ci riguardava. Questi due modi di pensare in Italia sono radicati da 20 anni, anzi da 50. Ma abbiamo giudicato con maggior severità quelli che ci sono più vicini”.
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