BARI – Lina Sastri s’ispira a Lina Sastri e dirige Lina Sastri (nel ruolo di Lucia, la figlia, ovvero se stessa nella vita vera): non una bulimia di ego, ma piuttosto una commovente e coraggiosa immersione tra le pieghe dell’intimo famigliare e, come spiega lei stessa, “questo film è un atto d’amore verso Ninetta, madre e donna speciale, leggera e nobile come la luce e la musica. Racconto la storia di Ninetta, del suo passato, e dei suoi ultimi anni. Ninetta luminosa, imprevedibile, coraggiosa; Ninetta con i suoi due figli, il suo mondo fatato e onirico. E, tutt’intorno, c’è Napoli, la musica, la magia, la luce. Una favola sospesa fra realtà e immaginazione, che si veste dei colori acquerellati di Napoli, della sua semplicità, della sua ricchezza, delle sue emozioni”.
La casa di Ninetta è dapprima un romanzo dell’autrice, che dalle pagine di carta ha spiccato il volo per la sua opera prima dietro la macchina da presa, scegliendo come protagonista Angela Pagano, nel ruolo di Ninetta anziana, la mamma di Lina Sastri nella vita vera, accanto a Maria Pia Calzone (Ninetta giovane) e Massimo De Matteo (Alfonso, il marito), personaggio ammaliante e complesso, che lavora sulle navi da crociera e dunque vive lontano da casa per la più parte del tempo, ma Ninetta lo aspetta sempre con immutato sentimento, laddove poi un misterioso duplice vissuto in Brasile farà sì che lui non faccia più ritorno.
Lina, c’è un tenerissimo senso di maternità che avvolge tutto il film. Questo sentimento lo riconosce nel suo approccio al personaggio interpretato da Angela Pagano soprattutto, e nella modalità di direzione del film?
È vero. Io non sono madre, purtroppo, perché mi manca molto esserlo, sono rimasta figlia. Io ho debuttato in teatro con Angela Pagano quando avevo 17 anni, lo spettacolo era Masaniello: quindi, mi ha emozionata dirigere qualcuno che avevo conosciuto da ragazzina, che s’è lasciata dirigere con molta umiltà e affetto; stando dietro la macchina da presa, e avendo scritto io la sceneggiatura, ma anche avendo dovuto scegliere gli interpreti di persone vere, come lo sono i dialoghi dalla vita vera, è stato un doppio salto mortale, perché stai raccontando te stessa, ma sei fuori come regista, altrettanto sei dentro come attrice, per cui è vero che ti senti un po’ madre di questi personaggi.
Domanda scontata ma necessaria a capire: cos’è che l’ha fatta decidere per il salto dalle pagine scritte alla regia? Che possibilità le ha offerto, che paure le ha posto, che sfide le ha lanciato?
Un giorno mi venne in mente di scrivere, un anno dopo che era morta mamma, quello che poi è diventato un libricino, editato per caso, diventato poi monologo teatrale; poi, sette anni fa – con in mezzo il Covid, e la morte di mio fratello, insomma degli avvenimenti importanti – mi passò per la testa l’idea del film, ma tutt’ora faccio fatica a credere di essere riuscita a farlo; ho cominciato senza pensare che ci sarei riuscita: ho fatto scrivere il trattamento a Valia Santella, tratto dal libretto, poi alla fine ho scritto io la sceneggiatura, ma non sapendo come si facesse e selezionando dal libretto cosa raccontare, facendomi dare una mano tecnica da Mario Martone, per l’organizzazione del passato e del presente; una volta scritta, subentrava il dover produrre, ma come si faceva? Sono andata io stessa a Rai Cinema, ho preso un appuntamento, e dopo due mesi hanno detto ‘sì’, e a quel punto si doveva davvero fare! Quindi toccava cercare qualcuno che facesse questo mestiere e ho trovato Run Film, i fratelli Cannavale su Napoli; quando poi anche il Ministero ci ha detto ‘sì’, caspita si doveva proprio fare! Con pochissimi soldi, ma si doveva fare. Quando poi sono andata sul set per dirigerlo – oltre che produrlo – sapevo quello che volevo vedere perché l’avevo vissuto, o m’era stato raccontato. Non essendo una regista, e avendo fatto 40 film sì, ma da attrice, che è un’altra cosa, sapevo però esattamente quale fosse l’obiettivo: non ho fatto primi piani, totali, piani americani, io ho girato come se fosse già incluso il montaggio, tanto che in quella fase, con Lilly Bonolis, ci abbiamo messo pochissimo, perché giravo quello che volevo vedere.
Scegliere di mettere la vera voce della sua mamma, che canta antiche melodie napoletane, è stato un bisogno affettivo, una scelta coraggiosa, un modo per rendere eterna Ninetta attraverso l’eternità che l’arte del cinema sa garantire?
La voce di Ninetta che canta c’è anche perché un giorno, seguendo il mio istinto, seppur lei fosse malata e vecchia, l’ho portata in uno studio di registrazione e, senza musica, le proponevo di cantare: non parlava più, ma cantava, con una voce meravigliosa. La sua voce, già dal vivo, ha fatto il giro del mondo, perché i miei spettacoli di musica cominciano e finiscono sempre con la voce di Ninetta, che adesso è arrivata anche al cinema: la sua voce scandisce.
Quali sono le corde artistiche di Maria Pia Calzone per cui l’ha reputata perfetta per il ruolo di Ninetta giovane?
Non volevo che fisicamente fosse una Ninetta classicamente mediterranea, perché lei era leggera, era chiara, pur essendo popolana era una po’ una Ingrid Bergman napoletana, e cercavo questo nella fisicità di Ninetta giovane, un’attrice che mi restituisse un’imprevedibilità della napoletanità femminile. È una madre ma non è prevedibile, come non lo era fisicamente. Maria Pia mi ha restituito tutto questo, così come Angela Pagano mi ha restituito Ninetta vecchia; era difficile anche Alfonso, perché negativo ma anche seduttivo: tra i 40 e 50 anni, a Napoli, oggi troviamo sempre un po’ gli stessi interpreti, che fanno tutto, e io volevo evitare questo: mi fa piacere per Massimo Di Matteo; oltre alle tre badanti, che sono il coro greco del film.
Lei – prima con il libro e poi con il cinema – sceglie di raccontare l’Alzehimer, disturbo che riguarda la mente, qualcosa di fondamentale per il mestiere dell’attore. Ha affrontato con se stessa interprete, dunque persona che lavora con la memoria, il fantasma di una malattia non prevedibile?
Sì, anche perché pare che l’Alzehimer sia una cosa in parte ereditaria: chiaramente, ho questo fantasma. Una sola volta m’è successo che alla prova generale di uno spettacolo dimenticassi improvvisamente tutto, ma era per il terrore dell’andare in scena; questo vuol dire che sulla memoria incide tanto l’emozione: come dico nel film, con la voce fuori campo, seppur con pudore, questo c’è il dolore della malattia, una malattia che toglie autonomia, dignità e identità, che poi succede spesso alle menti più attive, com’era Ninetta. Io penso che venga come corto circuito dovuto a un’emozione, a una mancanza, a qualcosa che a un certo punto ti dice: ‘basta, non mi voglio ricordare più’.
Nell sue note di regia descrive il luogo soffermandosi sui ‘colori acquerellati di Napoli’: cosa andava cercando e cosa intende con la definizione pittorica rarefatta e dolce che restituisce della città?
Sì, è pittorica. Io ho cercato, con Simone Zampagni, direttore della fotografia, di usare il meno possibile – sia in interni che in esterni – le luci artificiali; volevo una luce il più possibile vicina alla realtà. Oggi vediamo spesso, nelle innumerevoli produzioni napoletane e campane, contrasti molto forti, che io ho accuratamente evitato e che con molta tenacia ho combattuto perché Napoli ha una sua luce, che rendere non è facile ma quella è: ha l’aria leggera, il cielo macchiato, c’è il mare dentro la città; e pure nei vicoli in cui non arriva il sole ci sta quella luce.
La casa di Ninetta è una produzione Salina e Run Film con Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura e della Film Commission Regione Campania, in uscita al cinema a maggio 2024.
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