LILIANA CAVANI


“Di opere liriche ne ho fatte tante, ma la mia passione resta il cinema”. Liliana Cavani torna a quasi un decennio da Dove siete? Io sono qui: “due anni li ho passati in Rai, altri tre su un film che non è mai andato in porto per problemi di coproduzione”. Una coproduzione è anche Ripley’s Game. E un film su commissione, definizione che non sta scomoda alla cineasta di Carpi ma che anzi rivendica. “Mi piace moltissimo che qualcuno pensi a me per un progetto. In più ho sempre amato Patricia Highsmith”.
All’inizio, confessa, temeva i confronti con i precedenti e soprattutto con Il talento di Mr. Ripley di Minghella, poi si è rilassata. Giusto, perché il terzo romanzo dell’autrice americana le calza come un guanto. L’ha reso un solido thriller innervato dei temi che le stanno a cuore da sempre (leggi le anticipazioni di tamtam): la seduzione del male, il rapporto vittima-carnefice, la manipolazione. Il suo Ripley è un John Malkovich meno diabolico, più ironico e viveur, ha sposato la clavicembalista Chiara Caselli e si è sistemato in una villa palladiana carica di affreschi. Ma è pronto a riprendere il gioco del crimine per vendicarsi di un’osservazione irrispettosa del corniciaio Dougray Scott, affetto da leucemia terminale.
Dopo la buona accoglienza veneziana, fuori concorso, il film, prodotto da Fine Line e Cattleya, uscirà in inverno distribuito dalla 01.

Perché ha scelto John Malkovich?
Per me è il Ripley ideale. Straordinario nelle Relazioni pericolose, dove c’è un itinerario drammaturgico simile. Un cinico che agisce per scommessa e scopre infine di amare la sua vittima. All’inizio si fa beffe di Jonathan, questo inglese tanto perbenino, invece gli starà accanto fino alla fine.

Dallo stesso romanzo Wenders aveva tratto “L’amico americano”. Cosa ne pensa?
L’amico americano l’ho visto quando uscì, come anche gli altri film da Patricia Highsmith. Ma era la mia lettura che mi interessava.

Ai tempi di “Portiere di notte” lei aveva detto “vittime o assassini siamo tutti coinvolti”. Lo applicherebbe anche all’amoralità di Ripley?
Era una dichiarazione provocatoria dettata dall’anticonformismo e giustificata dal clima dell’epoca. Avevo fatto un documentario sul terzo Reich, per la prima volta mostravo i Lager, allora sembrava normale dire “noi avremmo abbattuto il regime”. Io volevo dimostrare che possiamo giudicare davvero noi stessi solo all’interno di certe circostanze e non in astratto.

Non si rischia di relativizzare fin troppo l’etica?
Al contrario. Se l’etica non esistesse, questa discussione non avrebbe senso. Io mi sono posta, ovviamente, dal punto di vista di Patricia Highsmith: un personaggio ai confini che si ritaglia una sua etica, le sue regole. Ripley si guarda bene dall’essere violento con chi non lo è, detesta i mafiosi, ha un suo codice d’onore. Certo, non è il trionfo della bontà.

Le piace il giallo?
Mi piacciono alcuni scrittori di gialli: lady P D James, la Highsmith; invece non potrei mai leggere la Cornwell, perché la sua scrittura non mi interessa, non amo i dettagli dell’azione, amo la psicologia.

Perché spostare l’azione ai giorni nostri e dalla Francia al Veneto?
Non c’era ragione per fare un film d’epoca anche perché questa storia è un piccolo classico. Il Veneto è vicino all’Europa, assolutamente scenografico e poco visto. Perfetto.

Che ricordo le resta dell’esperienza in Rai?
In Rai mi sono molto impegnata a lanciare la fiction e so che ora la vogliono reprimere. Peccato, perché ha avuto grande successo e ha creato un indotto di 50 mila persone. Non produrre non ha senso, sarebbe come se un fornaio comprasse il pane all’estero.

Cosa pensa dello stato di salute del cinema italiano?
Il problema, secondo me, è sempre lo stesso, la distribuzione. Bisognerebbe uscire in almeno tre o quattro paesi, ma è difficile creare una compagine tra tradizioni diverse, dove ognuno guarda al proprio ombelico. Eppure il cinema esiste se viene visto.

autore
02 Settembre 2002

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