Nel corso della giornata di studi, dedicata all’”euro-doppiaggio”, non poteva mancare un riferimento alle violente parole contro questa pratica (definita “nazi-fascista”), proferite da Clare People nel corso dell’ultima Mostra di Venezia. “Doppiaggio si, doppiaggio no”, per parafrasare Elio delle Storie Tese, è una vexata questio, che in Italia si trascina dal 1940, da quando cioè Antonioni aprì la polemica sulle pagine del vecchio “Cinema”, la rivista diretta da Vittorio Mussolini, con un intervento dal titolo “Vita impossibile del sig. Clark Costa”, cioè di quell’essere virtuale che appariva sullo schermo col corpo di Clark Gable e la voce di Romolo Costa, l’attore incaricato di doppiarlo. Da quel momento nemici e sostenitori del doppiaggio si sono confrontati a più riprese, registrando una vittoria ai punti dei primi, vittoria del tutto teorica, poiché è impensabile che i “puristi” possano ottenere l’abolizione di una pratica che in Italia più che altrove ha attecchito, creando nello spettatore una vera e propria dipendenza. Ma è poi vero che il doppiaggio sia una pratica barbara come non si stancano di denunciare i puristi? Personalmente nutro più di un dubbio. D’altronde sono confortato dall’opinione di Pier Paolo Pasolini, il quale perorava la causa di un “montaggio creativo”, pari alle migliori traduzioni delle opere letterarie, poiché – diceva – il sottotitolo crea danni ancor più gravi, non dando tempo allo spettatore di “vedere” le inquadrature nella durata stabilita dal regista, durata essenziale per la scansione del racconto (sarebbe come leggere un romanzo saltando una riga su due). E cosa dire di Fellini che doppiava regolarmente gli attori, facendoli recitare in presa diretta qualunque cosa, magari la tavola pitagorica? In realtà quella del doppiaggio è una questione, sulla quale si sbaglia a generalizzare. Va trattata caso per caso.
Domanda: vale la pena di costringere lo spettatore a leggere i sottotitoli, che molto spesso – per motivi di spazio – devono sunteggiare (e a falsare) i dialoghi di un film in cui gli attori si esprimono in una lingua a lui del tutto sconosciuta? Chi scrive ha capito L’uomo di marmo di Wajda solo dopo averlo visto per la terza volta, quella doppiata in italiano. I sottotitoli lo avevano completamente fuorviato. Al contrario ci sono film che andrebbero visti preferibilmente nella loro edizione originale; sono quelli in cui la voce del personaggio, quella precisa voce e non altre, è parte integrante della drammaturgia della vicenda. Il servo di scena di Peter Yates, per esempio, tratta dalla commedia omonima di Ronald Harwood, dove Albert Finney rappresenta la “Voce”, la sua insostituibile voce, e Tom Courtenay, l’altro protagonista, rappresenta lo “Sguardo”. Oppure Ponette di Jacques Doillon, dove si dovrebbe doppiare la voce di una bambina di quattro anni. E dove la trovi una doppiatrice di quell’età? Pare che proprio per questa, insuperabile, difficoltà, il film più volte annunciato, sia scomparso dai listini. Suvvia un po’ di coraggio! Ponette è un “film di nicchia”: non ci si rimette nulla, se lo si proietta sottotitolato.
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