Lì, sulle rive lacustri di un certo tratto di Lario, quello di manzoniana memoria, terra natale dell’autore – Antonio Albanese (nato a Olginate) – nascono, crescono e si frantumano le Cento Domeniche, titolo del film presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023.
Lui è un operaio specializzato, da 43 anni, al locale cantiere navale di Carlo Bonacina (Elio De Capitani): Antonio Riva, tornitore in prepensionamento, ha una ex moglie con cui corrono rapporti sereni (Sandra Ceccarelli); un’anziana mamma (Giulia Lazzarini) – “…che ha 90 anni, è una divinità, somiglia a mia madre, è dolce come mia mamma”, dice Albanese della sua attrice; un’amante, la moglie di un pezzo grosso del posto; e una figlia, Emilia (Liliana Bottone) che gli annuncia di volersi sposare, sogno sempiterno di questo papà per la sua unica bambina, per cui lui ci tiene assolutamente a “pensare a tutto” – economicamente parlando –, come da tradizione.
“Io arrivo da quel mondo, l’ho anche praticato, ho fatto il metalmeccanico per 6 anni, con orgoglio”, racconta Antonio Albanese. “Poi, quando ho scoperto il teatro ho lasciato il certo per l’incerto, la passione mi ha aiutato moltissimo e il bisogno mi ha avvicinato alla comicità, ma non ho dimenticato il mio paesello, che continuo a frequentare. Con Piero Guerrera – suo autore e sceneggiatore storico, ndr – continuo a rispettare e frequentare il mondo operaio e quello del film potevo essere io, perché sono uno che mi fido degli altri: volevo rappresentare questa tragedia, scoprendo anche fosse un tema mai rappresentato, o almeno dimenticato da qualche decennio, seppur quello operaio sia un mondo che ci sostiene da sempre, parliamo di 5mln di persone”. Quella di Cento Domeniche “non è Una storia ma centinaia di migliaia di storie fatte convergere tutte insieme. Io ho fatto anche Giù al Nord sul tema lavoro, a teatro: il lavoro è sempre stato per me molto importante perché arrivo da quel mondo, il lavoro mi ha tatuato l’anima; conosco un uomo che andava sempre a letto alle 8 di sera perché era stanco per il lavoro, mio padre”.
La provincia, si sa, è un piccolo mondo, ha il pregio della vita a misura d’uomo e diversi difetti, ma restando sul fronte luminoso della questione, Antonio Riva, nella geometria circoscritta delle sicurezze proprie del posto tranquillo, da sempre è anche correntista della locale banca, miccia scatenante della china della sua esistenza, come di quella di molti, moltissimi, che – come lui – fiduciosi del rapporto quasi famigliare con dipendenti e dirigenti hanno firmato qualcosa che – tra il chiaro e lo scuro della burocrazia – erano azioni o obbligazioni? Insomma, s’innesca una crisi che mette in ginocchio i piccoli risparmiatori, e in crisi anche chi dietro gli sportelli di quella sede bancaria è sempre stato a rassicurare (talvolta costretto a mentire) i clienti di una vita.
Albanese concorda nel pensare che sia “un film necessario, perché racconta una verità dimenticata, un’ingiustizia. In assoluta onestà volevo rappresentare a modo mio un tema preciso, che ha colpito molto fortemente l’Italia; e il ruolo è stato delicato, come fosse quello di un angelo: io sono un maniaco della recitazione, e questa recitazione è su un filo; lui è profondamente onesto e si prende la colpa, ma ti fa rendere conto dell’effetto della malvagità di poche persone, anzi: ne può bastare una”.
La comunità locale (della storia filmica) vive una profonda ansia collettiva, s’organizza una terapia di gruppo: l’angoscia morde e la vergogna altrettanto, portando a far sentire ciascuno in colpa. Quella dello psicologo, per Albanese, drammaturgicamente è stata “una lampadina, una rappresentazione molto teatrale e altrettanto vera, parliamo di persone che si svegliavano tremando. Tante cose vere che abbiamo saputo, raccolto, non si è potuto inserirle perché talmente incredibili che sarebbero sembrate poco credibili”.
Eppure, tornando al grande schermo, quel matrimonio, per Antonio Riva “s’ha da fare”, così lui si veste con l’abito fatto fare su misura dal sarto per l’occasione, fa una sosta al solito bar del paese, ma… la banca prende il posto della chiesa, un fucile prende il posto della gioia, e il dispiacere estremo di un papà è il sentimento ultimo di quest’uomo, che è Tutti, con Albanese che al suo Antonio conferisce un’umanità e una disperazione commoventi, lì sulle rive del suo lago, che non circoscrivono però la storia, anzi di respiro internazionale nella sua essenza, lasciando in chi guarda la sensazione di certe vicende sociali “alla Stéphane Brizé, alla Ken Loach”.
“La verità è che non era proprio il finale deciso dapprima, ma quando lavori su un tema del genere cominci a entrare nel personaggio, e a un certo punto mi sono detto: ‘no, dev’essere quello il finale, così: netto!’. E allora durante… la lavorazione è stato deciso questo finale, con questa posizione, questa vergogna totale. Per questo lavoro ci sono stati momenti in cui mi sono dovuto staccare dal set perché ho provato il batticuore, per la scena in banca mi sono dovuto appartare per un’oretta, chiedere di non essere disturbato, stare senza parlare, perché ho avuto una strana sensazione, era dura. Poi, un’altra cosa mai fatta, e che continuerò chiedere, è un tema musicale prima di cominciare il film, questo curato da Giovanni Sollima: quello proposto era già il film, per il sapore e il ritmo; facevo ascoltare la musica prima di girare; e la musica stessa, nel racconto, l’ho messa col crescendo, perché prima volevo far ascoltare il suono lento della provincia”, spiega ancora l’autore.
Per Piero Guerrera, “c’è il racconto della provincia e questa storia ci permette di raccontare comunità serene per una storia di ordinaria sopraffazione. C’è quasi un atteggiamento di vergogna in queste situazioni, per cui non si reagisce urlando contro qualcuno, e dal punto di vista del racconto questo era interessantissimo. Riconosco ad Albanese il timone di questa storia, spesso mi sono limitato a stargli accanto, a farlo guidare. Per il resto, tra noi, è questione di frequentazione”.
Cento Domeniche esce in sala il 23 novembre, un titolo – racconta Albanese – “pensato quasi subito” e mutuato da “una storia che io conoscevo, il racconto di un lombardo, della sua casa costruita in due anni: uno, a cui, qualunque cosa gli si chiedesse, rispondeva ‘lasa sta’ (‘lascia perdere’: ‘non mi chiedere niente’ è il senso), senza guardarti, era uno chiuso, in quel suo mondo”.
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