BERLINO – Divisa tra due madri, la piccola Vittoria, 10 anni e lunghi capelli rossi, scopre che può essere libera e trovare la propria forza in se stessa, senza rinunciare a nulla. Ed è un augurio che Laura Bispuri fa a tutte le bambine. La quarantenne regista romana è per la seconda volta in concorso alla Berlinale. Dopo Vergine giurata ha realizzato un film che conferma il suo sguardo e l’attenzione per la complessità dell’identità femminile. Figlia mia, in sala il 22 febbraio con 01, è la storia di ragazzina che vive in un paese della Sardegna, tra il mare e l’interno. Ha un rapporto simbiotico con Tina (Valeria Golino) che la protegge e la tiene stretta a sé, ma l’incontro con Angelica (Alba Rohrwacher), donna dalla vita disordinata e sofferta, tra alcol, debiti e promiscuità, le apre una nuova prospettiva. Da questa seconda madre, che la porta con sé in giro per le campagne e la fa ballare sulle note di Questo amore non si tocca di Gianni Bella, si sente attratta e respinta, un po’ anche sedotta, destando la gelosia dell’altra.
In realtà tra le due donne esiste un patto segreto che adesso si spezza rischiando di far crollare quel piccolo universo femminile, dove gli uomini – il paziente marito di Tina (Michele Carboni) e un tedesco che commercia in cavalli (Udo Kier) restano ai margini. Accolto con calore in una affollata conferenza stampa dove Alba e Valeria sono state paragonate a Giulietta Masina e Anna Magnani, Figlia mia, prodotto da Vivo Film con la Colorado e Rai Cinema, è interpretato anche da una giovane rivelazione, l’undicenne Sara Casu di Alghero.
Laura, come nasce questa storia di maternità biologica e simbolica?
Diversi anni fa, ancora prima di realizzare Vergine giurata, una ragazza di 20 anni, con una famiglia serena, mi raccontò di aver desiderato di essere adottata da un’altra madre. Quello spunto mi è sembrato interessante e ne ho parlato con la mia sceneggiatrice di sempre, Francesca Manieri. Un libro che ci ha stimolato nella riflessione è stato La figlia dell’altra di A. M. Homes e poi ci sono tanti testi, antichi e moderni, il racconto biblico di Re Salomone, Brecht. Amo partire da un contesto ancestrale per porre domande contemporanee.
Il film è una riflessione sull’immagine della madre – il tema della madre buona e della madre cattiva caro alla psicoanalisi – che parte da due archetipi per metterli in discussione.
Mi piaceva decostruire l’immagine della madre perfetta, idealizzata specialmente in Italia ma anche altrove. Raccontare madri imperfette è interessante. Cosa vuol dire essere madre oggi? E’ possibile crescere con più figure materne di riferimento? Quanto è importante il legame fisico con chi ti porta in pancia e ti somiglia? Alla fine la bambina scopre che tutte e due le donne hanno diritto di essere madri.
Le due donne si evolvono e finiscono non dico per somigliarsi ma per far emergere aspetti inattesi della loro personalità.
Il film non prende posizioni ideologiche e non vorrei strumentalizzarlo. Il mio percorso, fino ad ora, è stato sempre legato al tema dell’identità femminile, per mio interesse personale e anche per un piccolo atto politico. Sono stufa di vedere tanti film in cui le donne sono in secondo piano, banalizzate, a casa ad aspettare i mariti. Volevo personaggi femminili a tutto tondo. Ho scelto questa strada e continuerò in futuro. Angelica e Tina sono due donne complesse, hanno caratteristiche archetipiche ma si evolvono in un percorso incrociato.
Gli uomini sono tenuti ai margini della narrazione. E’ una scelta consapevole, immagino.
E’ una mia presa di posizione quella di mettere le donne in primo piano. Ma il personaggio di Umberto, il marito di Tina, è il più positivo del film, mostra un aspetto del maschile importante, è un uomo buono, giusto, che ama questa donna e questa bambina, privo di machismo.
Cosa pensa del movimento #MeToo?
Credo che stiamo vivendo un momento storico importante. Le molestie sessuali nel mondo del cinema sono solo un aspetto di un sistematico abuso nei confronti delle donne in tutto il mondo. In Italia molte donne vengono uccise dal partner o ex partner. Il livello di abuso è gigantesco, #MeToo prepara la strada alla discussione e aumenta la consapevolezza del problema.
Dopo l’Albania ha scelto la Sardegna come luogo del racconto. E’ qualcosa di più di una location, è uno dei motori della narrazione.
Io lavoro molto a lungo sulla sceneggiatura, circa due anni. Cerco di vivere il luogo. Alla Sardegna sono arrivata inizialmente per istinto, è un posto che conosco per averlo frequentato. Ha un paesaggio disarmante, malinconico, che mi ricordava molto i miei personaggi. E’ una terra dall’identità fortissima, che viene difesa dai suoi abitanti. Ed è divisa tra apertura e chiusura, ha un rapporto complesso con l’esterno, con il continente. Insomma, la Sardegna rispecchia il percorso di identità dei personaggi.
Si è posta il problema della lingua che devono parlare i personaggi?
Alla fine ha optato per una leggera inflessione sarda e non per il dialetto. Non c’è regola precisa, nel film ci sono attori italiani, attori sardi e non attori. Ma dopo un film girato in albanese, non volevo usare il dialetto stretto o un’immagine stereotipata della Sardegna. Sara è sarda ma ha colori irlandesi perché cercavo una bambina che avesse una somiglianza fisica con Alba. Per il personaggio di Tina avevo pensato anche ad una possibile attrice sarda ma poi ho scelto Valeria che è stata seguita da una coach, Maria Loi.
Come ha scelto Sara Casu?
Ho fatto 8 mesi di provini, ma mi serviva una bambina che potesse sopportare cose complesse a livello tecnico e psicologico. Nel film ci sono piani sequenza complessi. Alcune bambine già ai provini scoppiavano a piangere.
Tina viene rappresentata come una donna molto devota alla Madonna, che frequenta la chiesa assiduamente.
Questo è un elemento che abbiamo alleggerito rispetto alla sceneggiatura. Ma in Sardegna ci sono donne, le cosiddette prioresse, che si dedicano alla Madonna, se la portano anche in casa. Io e Valeria siamo andate spesso in chiesa per conoscere questo aspetto.
C’è anche un lato western della vicenda, che tra l’altro si apre con la scena di un rodeo. E trovo che queste donne abbiano una forte componente maschile, anche nello sfidarsi.
In Sardegna c’è questa tradizione di allevamento di cavalli. Il rodeo c’è davvero e serviva a dare alla scena iniziale un senso arcaico ma allo stesso tempo pop e a mostrare subito il mondo delle due protagoniste. Poi, tra loro c’è la sfida, è vero. E molta polvere.
Come mai ha chiesto a Udo Kier di partecipare al film?
Udo, che ho conosciuto quando portavo in giro per il mondo Vergine giurata, mi ha affascinato molto. Mi raccontava di Fassbinder. La sua presenza poteva ampliare il mosaico del racconto. Come quella di Michele Carboni che è un vero pastore e corre con i cavalli e ha fatto esperienza di recitazione con Mereu.
La fotografia è di Vladan Radovic, un suo collaboratore fisso.
Sì, insieme abbiamo fatto due corti e i due lungometraggi. Ci intendiamo molto bene, anche a livello istintivo. Stavolta gli ho chiesto una luce calda, al contrario di Vergine giurata, perché questo è un film sentimentale, non freddo.
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