L’arte della polemica: gioie e dolori del David di Donatello

La polemica sulle 14 nomination alla serie Sky Original 'L'arte della gioia' è la più discussa sui social dopo l'annuncio delle candidature, ma non la sola


Ogni anno, puntuali come i ritorni di Mercurio retrogrado e le metafore sul cinema italiano sempre in fin di vita, arrivano le polemiche sulle candidature ai David di Donatello. E anche quest’anno, si manifestano: agitate, indignate, fiorite come glicini avvelenati nei corridoi virtuali di X, tra le storie Instagram e le chat più infervorate di Facebook.

Nel mirino, questa volta, c’è L’arte della gioia, l’adattamento televisivo dell’opera postuma e maledetta di Goliarda Sapienza, firmato da Valeria Golino. Non tanto – o non solo – per l’abbondanza di candidature (ben 14), quanto per la sua natura: una serie tv in corsa per i David, anatema! Per molti suona come una violazione del patto sacro tra cinema e grande schermo.

Come se l’invasione dell’epoca episodica avesse scardinato le regole del gioco, portando i puristi a evocare lo spettro della contaminazione. E così, anziché discutere dei meriti o dei limiti dell’opera, ci si infiamma sul principio: può davvero una serie ambire a un premio pensato per il cinema? O peggio ancora: può vincerlo? La scena, secondo alcuni, l’ha rubata in partenza, solo per il fatto di esistere nel posto “sbagliato”.

Si dimentica che anche Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio, ottenne nel 2022 ben 18 candidature ai David di Donatello, vincendone 4 (miglior regia a Bellocchio, miglior attore protagonista a Fabrizio Gifuni, miglior montaggio e miglior trucco). E si disse: “ah, il solito Bellocchio!”

Come se essere Bellocchio fosse un demerito. Come se il talento, una volta acclarato, dovesse essere scavalcato per statuto da qualcosa di più fresco, o più simpatico. È il paradosso del premio: appena riconosciuto diventa sospetto.

Sullo sfondo si agita l’eterna domanda: le serie tv devono essere premiate come i film? Ma non doveva esserci una separazione? Qui il discorso si fa più tecnico e pure un po’ noioso, ma anche in questo caso sembra che il problema non sia la qualità, bensì il principio. Come se fosse inaccettabile che il mezzo si mescoli. Come se si temesse che il cinema – quello vero, quello con la C maiuscola e il popcorn minuscolo – possa essere contaminato dal formato a episodi. Eppure dovrebbe essere ormai acclarato che il confine tra cinema e serialità è una sabbia mobile.

Si guarda L’arte della gioia non come opera, ma come minaccia. Si guarda Paolo Sorrentino come ingombro. Si guarda BerlinguerLa grande ambizione con il righello in mano, per vedere se è abbastanza giusto, abbastanza potente, abbastanza biopic da meritare 15 nomination.

E nel frattempo, sfilano tra le candidature  film che il pubblico non ha visto nemmeno col binocolo, e che in certi casi nemmeno il pubblico sa di non aver visto. Opere raffinate, certo, o sperimentali, o semplicemente invisibili: Io e il secco (64 mila euro), Ciao bambino (27 mila euro), Le Déluge (188 mila euro), Vittoria (164 mila euro), Hey Joe (103 mila euro), El Paraiso (73 mila euro). Tutti titoli entrati nella rosa dei candidati con la leggerezza dell’aria e la consistenza di un sussurro. Eppure, benedetti dal giudizio tecnico, ci sono! E anche questo non va bene.

Che fine hanno fatto i film che il pubblico ha premiato?” ci si chiede perplessi e vagamenti irritati. Perché Il ragazzo dai pantaloni rosa e Diamanti – rispettivamente 10 e 16 milioni al botteghino – si accontentano di due candidature minori? E Un mondo a parte, visto da oltre un milione di spettatori, non compare nemmeno tra i presenti? È la solita tiritera: il “cinema che piace al cinema” contro il “cinema che piace alla gente”.

Le domande fioccano: i premi dovessero rappresentare un sondaggio d’opinione o riflettere l’umore delle sale? È giusto che il gusto del pubblico sia un parametro decisivo per stabilire la qualità? Che la giuria debba ragionare come un algoritmo di trending topic? O che, al contrario, i film invisibili valgano meno solo perché non hanno fatto squillare le casse?

Forse dovremmo smetterla di pretendere che un premio plachi tutte le anime: quelle dell’incasso, della critica, del cuore, della forma, del messaggio. Non ce la può fare. E infatti non ce la fa.  Ogni premio non può essere sempre un tribunale, ogni assenza: un caso di coscienza.

Perché, ogni volta che si annunciano i candidati a un premio, si assiste al risorgere della Vecchia Religione: quella che attribuisce ai giurati poteri magici, manovre di palazzo, alleanze segrete e magari anche qualche rito voodoo. Come se l’Accademia del Cinema Italiano fosse una setta esoterica invece che un insieme di professionisti (oltre 1600) con gusti, sensibilità, idiosincrasie e simpatie personali. Come se i voti venissero espressi da un algoritmo, o da una manina invisibile che tutto regola e tutto decide.

A questo proposito, è utile ricordare che non esiste il David. Esistono i votanti. Umani, troppi umani. C’è il fonico che ha apprezzato il suono limpido di una serie rispetto al caos di un’altra. C’è il montatore che ha colto l’audacia di una scelta. C’è l’attore che vota l’amico, e l’amico che vota l’attrice che gli piace. Non c’è una cabina di regia, ma un corteo disordinato di pareri.

Eppure, ogni volta, lo schema si ripete: lo scandalo per il film dimenticato, il grido al favoritismo, il sospetto della “moda del momento”. Qualcuno invoca i premi come specchio di un Paese corrotto, altri li pretendono come bilancia cosmica della giustizia artistica. Ma i premi – checché se ne dica – sono solo premi. E spesso, chi si indigna lo fa con la stessa foga con cui commenterebbe un rigore sbagliato o una sfilata del Met Gala.

Sotto sotto, è anche questo il bello. L’arte accende discussioni, e un premio che non fa discutere è un premio morto. Fa parte del gioco: chi vince divide, chi perde si compatta, chi guarda commenta. E, a volerla dire tutta, anche le ingiustizie percepite servono a qualcosa: a far parlare, a far ricordare, a rinfocolare passioni. A volte, più di una vittoria, è proprio una sconfitta a cementare un’opera nel cuore di chi la ama.

Forse, allora, è tempo di prendere tutto questo con un po’ più di leggerezza. I David – come tutti i premi – sono solo una fotografia, non un verdetto eterno. E si sa: le foto, a volte, vengono mosse, altre volte con la luce sbagliata. Ma sempre, sempre, dicono qualcosa di chi le scatta.

E allora lasciamo che l’arte della gioia faccia il suo percorso, che Bellocchio continui a essere Bellocchio, che i premiati gioiscano e i delusi si scatenino. Tanto, tra un anno, saremo di nuovo qui. A contare candidature, a invocare giustizia, a chiedere verità. Come se davvero ci fosse una risposta.

Nel frattempo, godiamoci lo spettacolo. Perché, diciamocelo: anche la polemica, a suo modo, è un’arte. E in Italia, su quella, abbiamo almeno quindici candidature assicurate.

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11 Aprile 2025

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