Ladri di bambini sotto il Vulcano

Esce in sala l'11 giugno con Lucky Red e Parthénos il film gautemalteco vincitore del Premio Alfred Bauer alla 65esima Berlinale


Arriva nelle sale, in questo scampolo di stagione, un’opera prima guatemalteca che merita di non passare inosservata. Vulcano (Ixcanul) di Jayro Bustamante, che alla Berlinale di quest’anno ha vinto il Premio Alfred Bauer, ha la forza dei suoi interpreti, poverissimi contadini Maya, e il fascino di un cinema autenticamente calato in un territorio. Il regista, classe 1977, cresciuto insieme alla madre, operatrice sanitaria, proprio in quegli altipiani, ha infatti trascorso lunghi mesi all’interno della comunità Kaqchikel conquistandone la fiducia . “Ho organizzato dei laboratori per permettere alle persone di confrontarsi con i problemi sociali che le riguardano – racconta – ho costruito la struttura narrativa del mio film attingendo alle loro storie vere, a questi incontri e a una testimonianza in particolare. Durante questa fase ho anche insegnato ai membri della comunità a diventare attori per recitare nel mio film”. 

La protagonista Maria – Maria Mercedes Coroy, un volto che non passa inosservato – vive con i genitori in una piantagione di caffè. Nella prima scena la vediamo impegnata con la madre a “eccitare” un maiale e una scrofa con l’aguardiente per favorire l’accoppiamento. La vita, alle pendici del grande vulcano (Ixcanul in lingua Maya), è scandita dalle attività agricole e dai piccoli rituali. Maria e i suoi vivono sui terreni gestiti da un soprintendente (Ignacio) che è appena rimasto vedovo con tre figli e vorrebbe sposare la ragazza, molto bella e che potrebbe occuparsi dei piccoli rimasti orfani. Lei invece sogna qualcos’altro, anche se ancora confusamente. Vorrebbe emigrare, allontanarsi dai quei luoghi, infestati dai serpenti velenosi, spera che Pepe, un coetaneo che lavora come stagionale nella raccolta del caffè, la porti con sé negli Stati Uniti, dall’altro lato del vulcano. L’ingenua Maria, che crede a tutto quello che le dicono, è disposta a concedersi a lui, più interessato alla bottiglia che a lei, per poi fuggire insieme, ma Pepe riesce solo a metterla incinta. Su questo plot, Bustamante costruisce una drammaturgia in parte prevedibile – è chiaro fin da subito che Maria verrà abbandonata dal ragazzotto – ma gli eventi passano tutto sommato in secondo piano rispetto alla descrizione di un mondo unico, dove la superstizione, la religiosità popolare e il rapporto con una natura fortissima e violenta dominano la scena: i gesti, la lingua, le tradizioni, i costumi sono il fulcro dell’attenzione.

“La protagonista del film – spiega Bustamante – è un personaggio che lotta per forgiare con le sue mani il proprio destino, malgrado ciò le sia vietato”. E del resto in questa assoluta miseria e nell’incapacità di esprimersi in spagnolo, si inseriscono coloro che vogliono sfruttare la situazione a proprio vantaggio in vario modo. Racconta il regista, attingendo ancora a ricordi della sua infanzia: “Mia madre condivise con me la sua indignazione, quando scoprì che alcuni funzionari sanitari pubblici erano coinvolti nel rapimento di bambini maya”. Il Guatemala è infatti il principale esportatore di minori al mondo con 400 sequestri ogni anno portati a termine in condizioni di totale impunità. 

Ma al di là della denuncia, pur necessaria e sconvolgente, colpisce nel bel film la narrazione dei rapporti umani e in particolare di quello tra Maria e sua madre, un rapporto complice e di totale accettazione, anche quando la ragazza rivela la sua gravidanza che non solo manda a monte il matrimonio combinato, con la possibilità di una sia pur minima promozione sociale, ma rischia di far scacciare la famiglia di casa.

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09 Giugno 2015

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