VENEZIA – Le regole e il dubbio: sopraffare o essere sopraffatti? Non confessare per non tradire. Dire bugie per essere accettato, ma non essere se stesso. La persuasione, la minaccia, l’educazione: tre pilastri. L’affermazione della mascolinità e la pressione della scoperta sessuale. Il giusto, la perfezione, il male, la morte, come anche spiegati dal professor Golgota (Fabrizio Gifuni) – nomen omen – quando dinnanzi ad un dipinto di Gesù picchiato da sei uomini afferma che “chi fa del male, lo fa anche a se stesso”, non solo alla vittima. Interrogativi, affermazioni, messe a fuoco, definizione di una morale.
La scuola cattolica – Fuori Concorso, diretto da Stefano Mordini, anche co-autore della sceneggiatura con Massimo Gaudioso e Luca Infascelli – racconta dal vissuto autobiografico dell’adolescente Edoardo (Emanuele Maria Di Stefano) – Edoardo Albinati, autore dell’omonimo romanzo (Premio Strega 2016), da cui il film è tratto – che nel ’75 frequenta il penultimo anno di Liceo in una scuola privata maschile, frequentata dai figli della borghesia romana. “Il romanzo è un fiume, molto bello, pieno di riflessioni ma non pienissimo di trama. Noi dagli spunti di trama abbiamo sviluppato delle storie: 1400 pagine non corrispondono a 1400 pagine di trama. È una specie di Zibaldone di pensieri, con 100 pagine di trama: ruota tutto intorno al delitto, che serve per domandarsi il tipo di cultura che può produrre l’educazione cattolica”, commentano i due sceneggiatori.
“Il film non racconta solo una violenza verso le donne, ma la violenza, una prerogativa dell’uomo dalla nascita, che non sparirà mai, da cui siamo attratti: il seme che è dentro di noi in fase di sviluppo cresce e se nutrito con elementi sbagliati degenera” riflette Di Stefano.
“Albinati dice: ‘il mostro colpisce ancora’. Il cinema, a volte, serve per far porre attenzione: è l’obiettivo del film”, aggiunge Stefano Mordini, che fa un uso del tempo che fluttua continuamente tra passato e presente. “Sono piccole cellule narrative che non hanno una vera necessità di chiudersi nella trama del tempo. Ho usato il tempo perché portando avanti le storie parallele si desse giustizia alle ragazze: il germe malefico nasceva da prima, non è successo tutto in un momento”.
Gianni Guido (nel film, figlio di Riccardo Scamarcio), Angelo Izzo, Andrea Ghira (Giulio Pranno) – nella realtà omicidi del Massacro del Circeo (29-30 settembre 1975) – erano compagni di scuola e di quartiere di Edoardo, compagni “di banco” o di feste, amici degli amici che erano fratelli di quelle sorelle guardate con la tenerezza e l’imbarazzo dell’adolescenza e delle prime pulsioni, amanti di quelle mamme (Jasmine Trinca) dal passato luminoso e dal presente decadente che cercano la vitalità nel sesso con un compagno di scuola del proprio figlio, come succede a quella di Pik (Alessandro Cantalini). Quell’estate, quella del Massacro, “ci eravamo cuciti addosso l’innocenza e ci scoprimmo feroci assassini”, commenta fuori campo la voce di Edoardo. Quell’estate è stata la stagione in cui figli e genitori hanno preso coscienza che i problemi erano innervati dentro le case o dentro la scuola – sì, perché anche la purezza di Fratel Curzio viene messa in discussione quando visto a caricare in macchina una prostituta dalla strada -, nel nome dell’essere “amici nella morte, amici della morte”, come ripete uno dei tre che hanno rapito, violentato, drogato, ucciso Rosaria Lopez (19 anni, interpretata da Federica Torchetti) e Donatella Colasanti (17 anni, interpretata da Benedetta Porcaroli), quando ancora il cadavere caldo della prima e il corpo quasi inerme della seconda giacevano esanimi nel bagagliaio della loro automobile, mentre gli stessi pensavano a raggiungere i compagni ad una festa.
“Si tratta della violazione di un individuo nelle sue parti fondamentali, mente e corpo: i miei occhi spalancati erano la sfiducia nel genere umano. Questa storia è una cosa a cui non ci si dovrebbe abituare mai: nonostante sia una storia del passato, tutto ciò succede ogni giorno, la sopraffazione del più forte sul più debole, per un’educazione sentimentale che manca”, commenta l’attrice che interpreta Donatella.
“Era importante prendere il racconto e identificarlo nel maschio che si permetteva di prendere la donna e usarla come oggetto. Il delitto generò anche un dibattito intellettuale: per omaggiare quella sofferenza e farla diventare responsabilità di tutti, ce la siamo assunti anche nel film. La volontà era di continuare a parlarne con una chiave diversa, che possa creare il maggior contributo possibile di rispetto verso l’altro: c’è un limite che il film dichiara, questo film serve a suggerire a chi un limite non l’ha di spostarsi e quindi più i giovani riescono a stare dentro al limite, più li forma. Un giovane, qui può forse vedere la deriva di una fiducia mal riposta”, prosegue Mordini.
Dopo il Massacro, narra ancora Edoardo, le madri scrutavano i figli, cercando se dietro di loro ci potesse essere un mostro, e – come il tempo permette che accada – tutto poi è pian piano tornato alla normalità, così Gioacchino (Andrea Lintozzi) – il più cattolico dei compagni, figlio della numerosa famiglia di cui è mamma Valentina Cervi – è diventato psichiatra, curante anche di alcuni compagni del liceo, poi anch’essi rivelatisi psicotici, ed Edoardo ricorda il suo essere rimasto orfano del fratello piccolo a causa dell’ingestione di una bacca velenosa, ma non meno rammenta anche il geniale Orso Arbus (Giulio Fochetti), figlio di Valeria Golino e del logico-matematico Gianluca Guidi, padre di famiglia, scoperto omosessuale sotto gli occhi del figlio. “Lo sguardo sprezzante della borghesia sul proletariato, è uno sguardo con una componente forte rispetto al trattamento del corpo. La formazione di questi ragazzi in una scuola maschile, in cui a parte la Vergine Maria e la propria madre, tutte le donne sono portatrici di peccato. Non c’entra la follia in quegli assassini, c’entra l’educazione”, per Jasmine Trinca.
Il film propone una riflessione sul falso perbenismo, sulla sua quieta apparenza, sulla borghesia quale tappeto sotto il quale s’ammucchia sempre lo sporco peggiore, e nel caso specifico questo accade sotto gli occhi non innocenti della Religione Cattolica e di quelli di Edoardo, adolescente giudizioso, curioso ma timido, compagno del male senza esserne consapevole né complice, fino all’epilogo che ha sollevato l’oscuro velo a coprire il pulsare serpeggiante di violenza, distorsione ed ego ipertrofico. “Ci sono cresciuta in quella classe sociale, in cui i figli borghesi si sentivano impuniti: le colpe sono da cercare in una famiglia/società distratta, dove il branco ti dava così la forza per costruire la tua identità. Dov’è l’empatia? Il film è lo spartiacque di quando s’è iniziato a parlare di certi temi”, commenta Valentina Cervi, cui fa eco la riflessione di Valeria Golino: “Il femminismo di allora e di adesso sono cose differenti e un po’ rimpiango le femministe di una volta: adesso possiamo parlare, si sta creando un dialogo, ma ci sono cose travestite dal politicamente corretto. Io non riesco ad abituarmi all’idea che l’essere vittima sia una medaglia d’onore: la società, da una parte sta migliorando, dall’altra sta implodendo sul bigottismo”.
Stefano Mordini, nel condurre all’epilogo del Circeo, comincia dal triangolo, simbolo dell’occhio divino, grafica che appare nelle prime sequenze del film, e dentro cui campeggia solido il titolo, e chiude con il viso livido, tumefatto – quasi essenza del tormento cristologico – di Donatella, come a mettere in connessione i poli del divino e del troppo umano, in fondo non così distanti nella loro necessità di passare per la via del male estremo per ristabilire l’ordine delle cose. “Sono stato molto vicino alla scena (nella villa), più che alla macchina da presa, per la tensione che stava crescendo. Era molto l’ascolto della nudità, della violenza che sarebbe successa: non sono stato bene in quel momento, mi sono fatto una forzatura”, ammette il regista.
La scuola cattolica esce al cinema dal 7 ottobre 2021 con Warner Bros. Entertainment Italia per cui Barbara Salabè conclude: “Avevo 13 anni quando c’è stato il delitto e a casa c’erano le discussioni a tavola: ‘se la sono andata a cercare’, l’ho sentita tutta la vita. Col femminismo abbiamo cercato di dare un colpo di reni, ma l’affermazione torna sempre. È importante sia un film fatto da due uomini – Mordini e Roberto Sessa, il produttore – che sono coloro con cui noi donne dobbiamo progredire”.
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