Il 3 marzo 1963, Alberto Moravia, in una recensione su “L’Espresso”, riferendosi a La ricotta di Pier Paolo Pasolini, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G., scriveva: “Dobbiamo premettere che un solo giudizio si attagli a quest’episodio: geniale! Non vogliamo dire con questo che sia perfetto o che sia bellissimo; ma vi si riscontrano i caratteri della genialità, ossia una certa qualità di vitalità al tempo stesso sorprendente e profonda. L’episodio di Pasolini ha la complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema di immagini cinematografiche. Da notarsi l’uso nuovo ed attraente del colore e del bianco nero. Orson Welles, nella parte del regista straniero che si lascia intervistare, ha creato con maestria un personaggio indimenticabile”.
Questa analisi critica di Moravia seguiva di due giorni l’uscita del film in sala, il sequestro della pellicola con l’accusa di vilipendio alla religione di Stato per Pasolini, e l’avvio del processo contro il film e il suo autore, momento giudiziario di cui dunque ricorrono 60 anni in questi giorni.
Ro.Go.Pa.G.nasce strutturato in quattro episodi e il titolo, come una sigla, si compone delle radici dei cognomi dei quattro autori: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. In particolare, La ricotta (35 minuti), interpretato da Orson Welles (il regista, doppiato da Giorgio Bassani), Mario Cipriani (Stracci), Laura Betti (la diva), Vittorio La Paglia (il giornalista), Rossana Di Rocco (la figlia di Stracci), le cui scene a colori riproducono due riconosciuti dipinti del Cinquecento, la Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo di Pontormo, mette in scena – nella campagna romana – una troupe cinematografica impegnata nelle riprese di una passione di Cristo.
Stracci, comparsa che interpreta il buon ladrone, regala ai familiari il cestino del pasto ricevuto dalla produzione. È affamato, così si traveste da donna per rimediare un secondo cestino, che però viene sbaffato dal cagnolino della diva. Nel frattempo, sul set arriva un giornalista, per un’intervista al regista. Il cronista, infine, incrocia Stracci col cagnolino e glielo compra per Mille Lire, denaro con cui l’uomo si precipita dal “ricottaro” lì delle campagne e acquista tutta la ricotta per sfamarsi, ma al contempo viene chiamato sul set e legato alla croce per la ripresa. La pausa successiva si fa momento perfetto per mangiare ancora la ricotta e, sorpreso dagli altri interpreti, Stracci viene invitato ad abbuffarsi con ciò che è rimasto del banchetto preparato per l’ultima cena. Nel frangente del ciak della scena della crocifissione, Stracci muore d’indigestione sulla croce. Il regista, con automatismo privo d’empatia, commenta: “Povero Stracci. Crepare… non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo…”.
Il quotidiano “La Stampa” riportava così le prime vicende processuali, era il 5 marzo 1963:
“Non ho pensato davvero ad offendere la religione cattolica. D’altra parte nel film La ricotta da me scritto e da me girato non vi sono elementi dai quali si possa dedurre che io abbia volontariamente o involontariamente offeso la religione”, dichiarava PPP.
Per il Pubblico Ministero, Giuseppe Di Gennaro, Pasolini avrebbe invece vilipeso alla religione dello Stato “rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene della passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo ed altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli persone della religione cattolica”.
Il dibattimento chiamò in aula non poche figure d’intellettuali, a pieno supporto del regista friulano. I giudici si riservarono di vedere il film, al fine di capacitarsi se l’accusa fosse fondata.
Pasolini, in sua difesa, dichiarò: “I miei precedenti letterari e cinematografici escludono che io abbia potuto avere intenzione di offendere la religione cattolica nel film La ricotta. Se qualcuno ha dato questa interpretazione del mio film, non vi è dubbio che si tratta di una interpretazione in malafede”.
“Cosa intende dire con questo? Lei si rende conto che chi lo accusa è un organo dello Stato, e cioè il Pubblico Ministero che esercita la funzione della giustizia?”, domandava il PM.
“Parlando di malafede non mi sono rivolto al Pubblico Ministero. Tenga presente che al film io ho fatto premettere una didascalia, da me stesso letta, in cui avverto che la mia opera cinematografica può essere malamente interpretata”, precisa PPP.
“Di conseguenza lei oggi emette un giudizio nei confronti di chi lo accusa. Lei ritiene che il suo accusatore oggi è in malafede?”, continuava Di Gennaro.
“Signori giudici, non possiamo mettere l’imputato sulla graticola. Egli deve rispondere a delle domande e non esprimere dei giudizi. Comunque, è necessario sottolineare che tutta l’opera anteriore di Pasolini è sempre stata rispettosa della religione”, per Berlingieri, avvocato della difesa.
“Invito Pasolini a ribadire la sua dichiarazione”, disse il PM.
“Si. Chi mi accusa non può che essere in malafede”, ribatteva il regista.
“Pasolini, lei deve dirci come le è nata l’idea del film”, lo invitava il Presidente in aula.
“Mi venne suggerita da un fatto di cronaca. Durante l’eclisse di sole avvenuta nel 1961 venne girata una scena della crocifissione, che venne inserita nel film Barabba. Una comparsa che interpretava il ruolo del ‘buon ladrone’ venne colto da malore. Da questo fatto di cronaca io ho tratto l’idea del film in cui si racconta la storia di una comparsa, la quale muore sulla croce per aver mangiato troppo dopo un lungo periodo di digiuno. Nel film non intendevo affrontare un problema religioso, ma un fatto di cronaca di cui la religione è solo la cornice. Il senso del film è nel problema del sottoproletariato. Il protagonista del film è il simbolo di questo sottoproletariato, di cui nessuno si occupa, nemmeno i partiti. Stracci, così si chiama il ladrone, che è il personaggio più importante del film, morirà, ed è questa la sua unica ribellione ed è l’unico modo di farsi capire”, la spiegazione dell’autore.
Era questa la prima volta in Italia che un regista veniva processato per un film, nota presente anche nell’articolo del quotidiano suddetto.
Pasolini, in Primo Grado, fu dapprima condannato a quattro anni di reclusione con la condizionale, poi fu assolto in Appello. La Cassazione annullò la seconda sentenza, il processo si chiuse per subentrata amnistia.
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