La preghiera come riabilitazione dalle dipendenze

Segue il percorso di ricostruzione dopo un passato tossicodipendenza il film francese di Cédric Kahn, La Prière, in concorso alla Berlinale, che mostra la vita all’interno di una comunità che vive iso


BERLINO –  Segue il percorso di riabilitazione e di ricostruzione personale dopo un passato di dipendenze il film francese di Cédric Kahn, La Prière (The Prayer), in concorso alla Berlinale. Una pellicola che racconta la vita all’interno di una comunità di ex tossicodipendenti che vive isolata tra le montagne francesi e usa come metodo di cura una vita spartana fatta di disciplina, astinenza, duro lavoro e preghiera frequente, associata a un forte legame che s’instaura presto tra i componenti del gruppo grazie a canto e pratica religiosa. Protagonista il ventiduenne Thomas (Anthony Bajon), ex eroinomane che, dapprima in maniera assai riluttante, entra a far parte di una comunità supervisionata da un prete cattolico, di cui accetta gradualmente le regole come ultima chance di salvezza per curare se stesso e uscire, sia fisicamente che mentalmente, dalla sua situazione di fragilità. “La costruzione del film è stato un lungo processo, nato dall’esigenza di raccontare con un approccio quasi documentaristico il percorso che porta dalla droga alla religione”, ha sottolineato il regista che si definisce un agnostico e vede personalmente la preghiera come un momento di meditazione con se stessi piuttosto che come atto religioso. “Per fare questo abbiamo organizzato una serie di incontri con persone che hanno effettivamente sperimentato un’esperienza simile, andando ad osservare da vicino i loro rituali, le loro vite e a parlare delle loro esperienze”.  Ma non è solo di tossicodipendenze che parla il film: “Ci sono tante forme di dipendenza nella nostra società, come l’ossessione per il lavoro o per internet. L’unico modo per uscirne è disconnettersi dal mondo esterno e ricostruire da zero tutti i legami”.

Il film segue il lungo e difficile percorso quotidiano di questa comunità di fragili, in un luogo isolato con le sue regole ferree e i suoi duri ritmi di lavoro, dove la pratica religiosa diventa quasi un’ossessione che tiene la mente occupata e permette di uscire dalla dipendenza. Ma al tempo stesso quel luogo è la protezione che tiene lontani dai vincoli del resto del mondo, una sorta di bolla dove è possibile annullare tutto il passato e ricostruirsi daccapo: “Abbiamo scoperto che molti impiegano tre, quattro o anche cinque anni per disintossicarsi, ma la parte più difficile è fare poi i conti con il mondo esterno pieno di pericoli e tentazioni”. Nella comunità, cui arrivano vivendo un’estrema solitudine e uno stato di angoscia profonda, vengono tagliati fuori da tutto: dalla famiglia, dagli amici, dai legami precedenti. Ciò che apprendono, oltre alla preghiera, è la condivisione e il vivere in comunità. Cercano di ricostruire nuovi legami di fratellanza e nuove connessioni umane, e questo probabilmente è quello che alla fine li può salvare.  “È qualcosa che va oltre la religione, è come se tutte le parole pronunciate all’interno della comunità fossero una sorta di preghiera e un link di fratellanza tra i membri”, evidenzia uno degli sceneggiatori, Samuel Doux.  

Nella comunità il protagonista scopre la fede, ma anche l’amore per una ragazza, e il film si chiude con un finale aperto sul suo ritorno al mondo: “Non potevo immaginare il ragazzo entrare in seminiamo, vederlo passare in qualche modo da una prigione all’altra. Doveva portare la sua nuova vita, fatta anche di preghiera e fede, nel mondo esterno. Volevo dargli la possibilità di scelta, la cosa più importante”.

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18 Febbraio 2018

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