BOLZANO – Eileen Byrne chiude il 38mo Bolzano Film Festival Bozen con La fossa delle marianne, il suo primo lungometraggio, un road movie imprevedibile che affronta il tema del lutto alternando commedia e tragedia. “Così è fatta la vita”, specifica infatti Byrne, che ha tratto il racconto dall’omonimo romanzo bestseller di Jasmin Schreiber. Il film – in arrivo nelle sale italiane dal 24 aprile con Trent Film – segue l’inaspettata amicizia tra la giovane Paula (Luna Wedler), segnata dalla perdita del fratello, e l’eccentrico Helmut (Edgar Selge), in viaggio verso Trieste con l’urna della moglie. Girato tra Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, il debutto di Byrne, premiato al San Diego International Film Festival 2024, trasforma il dolore per la perdita di una persona cara in una rinnovata gioia di vivere.
Nonostante La fossa delle Marianne parli di lutto, a fine visione ci si sente più leggeri, come sollevati da un peso e pronti a ricominciare. È questo ad averti colpito nel libro a tal punto da sceglierlo come tuo primo lungometraggio?
È proprio quello che speravo: una storia che, attraverso la morte, ti riporti a vivere. Scoprire il romanzo di Yasmin Schreiber è stata una fortuna incredibile. Ero appena uscita dagli studi, cercavo una storia, ma ero bloccata. Niente mi convinceva. Poi il mio produttore, un amico del Lussemburgo con cui ho studiato, mi ha mandato una lista di libri da Books at Berlinale, un evento dove presentano romanzi da adattare per il cinema. Mi ha detto: “Dai un’occhiata, ce ne sono un paio interessanti”. Ho aperto il PDF di Mariana Trench, ho letto le prime dieci pagine e ho pensato subito: “Dobbiamo farlo”. Inizialmente la sinossi mi aveva fatto pensare a un road movie tedesco scontato – sai, il solito con un vecchio e ragazza – ma poi ho letto e… wow, era tutto tranne che scontato.
C’è molto umorismo, ma non per questo si sottovaluta la serietà dei temi trattati. Sei attratta da questo tipo di storie?
L’umorismo del libro è brillante, la tragicommedia perfetta. Io adoro le dramedy, le ho sempre fatte nei miei corti. Non riesco a fare un dramma puro, non è roba mia. Anche nei momenti più tragici, la vita è speranza, amore, risate. E poi c’era qualcosa di personale: ho tre fratelli più piccoli, e il senso di protezione della protagonista verso il fratello che annega mi ha colpito al cuore. Ho deciso di fare il film prima ancora di finire il libro, lo so, sembra folle! Non ho vissuto perdite gravi, per fortuna, ma ho visto amici soffrire, e ho imparato che ognuno vive il lutto a modo suo. Nel romanzo, i due protagonisti sembrano opposti, ma scoprono di condividere gli stessi sentimenti, solo espressi diversamente. È stato questo a spingermi a dire: “Sì, è il mio film”. Quelle pagine parlavano la mia lingua, e leggendo il resto, il tema mi ha conquistato.
A proposito di lingua, nel film la giovane protagonista dice: “Il lutto è come una lingua, e io ho trovato qualcuno che parla la mia, solo con un dialetto diverso”. Pensi che fare cinema sia anche un po’ questo, creare una lingua che risuoni con gli spettatori?
Quella frase mi ha colpito subito. Nel libro è ancora più potente perché lui è austriaco, quindi il “dialetto” aggiunge un altro livello. Non so se ci penso in modo consapevole, ma per me fare cinema è come tradurre. Sono figlia di un traduttore, e mio padre diceva sempre: non puoi tradurre parola per parola, devi cogliere l’essenza. Adattare il romanzo è stato così: trovare il cuore della storia e portarlo in immagini.
Quali sono state le sfide di questo adattamento? L’autrice del libro ha già visto il film?
Non è stato facile. Pensavo fosse un gioco da ragazzi, ma ci siamo scontrati con monologhi interiori, flashback… come li traduci visivamente? Alcune scene le abbiamo prese pari pari, altre sono diverse, ma credo che l’essenza sia rimasta. Yasmin, l’autrice, ha visto una versione non finita – senza musica, effetti, colori – e ha riso, pianto, era felice. Ero terrorizzata che non le piacesse! Ha scritto il primo trattamento con me, poi si è ritirata per altri impegni e non ha letto le sceneggiature successive. Per me forse è stata una fortuna.
Il film ha una struttura ciclica, con l’acqua come elemento simbolico, che torna anche a livello sonoro quando la protagonista ha degli attacchi di panico e si sente annegare. Come hai creato l’atmosfera delle sequenze subacquee?
L’acqua è nel romanzo, ma non così esplicita. I capitoli sono numerati da 11.000 a zero, come un’ascesa dalla Fossa delle Marianne all’aria. Ho voluto tradurre questo visivamente con le sequenze sott’acqua, usando frasi chiave della protagonista sulla sensazione di non respirare, di essere schiacciata dal lutto. Alcune voci fuori campo sono adattate dal libro, altre sono nate in montaggio, come i suoni del panico. È stato un modo per far sentire il peso del lutto e poi la liberazione.
Un altro tema delicato del racconto è legato al suicidio. Si dice che c’è una differenza tra “non voglio vivere” e “voglio morire”. È cambiato il tuo modo di osservare questi temi dopo la realizzazione del film?
Il lutto è universale ma unico. Non ho vissuto perdite gravi, ma la fine traumatica di una relazione mi ha fatto provare quella sensazione di “non voglio più vivere”. Non era un desiderio di morire, però, e il romanzo lo spiega bene: c’è una differenza tra i due. Quella frase è stata la chiave per capire la protagonista. Lavorando al film, ho imparato a rispettare i modi diversi di affrontarlo, ma so che quando toccherà a me, sarà un’altra storia.
Il film è una co-produzione tra tre paesi. Come ha influenzato il tuo lavoro?
È stato un vero viaggio! All’inizio ho pensato: “Wow, soldi per girare, tante locations, è fatta”. Invece, è stata una sfida logistica. Abbiamo girato in Alto Adige, con un sole pazzesco, ma spostarsi costa energia e budget. Però, avere cinque o sei lingue sul set per me è stupendo. Sono cresciuta in Lussemburgo, dove questo è la normalità, mi sentivo a casa. Le co-produzioni non si “vedono” nel film, ma uniscono persone, modi di lavorare diversi. E poi, finanziarlo così è stato più facile che in Germania, dove il sistema è complicato. Senza quei fondi, forse saremmo stati tre in un camper con un iPhone!
A proposito di Alto Adige, c’è una battuta nel film che ho trovato emblematica: “L’Alto Adige non è Italia, è Alto Adige”. Una sorta di limbo, come quello che vivono i due personaggi, che in un certo senso non sono ne vive ne morte, affrontano il lutto e devono decidere se “tornare in superficie” o no. È una metafora a cui hai pensato?
Non ci avevo pensato ma sembra una lettura perfetta! Pensa che la frase è stata improvvisata dall’attore, ma è vero, i protagonisti sono in una bolla, protetti dal camper, né vivi né morti. L’Alto Adige, con la sua identità sospesa, calza a pennello.
Recentemente ti sei espressa in merito alle condizioni delle donne nel cinema. Hai detto che quando vivevi a Lussemburgo era più facile, mentre a Berlino ha scoperto che non è affatto così. Qual è la differenza?
Forse perché Lussemburgo è piccola, tutti si conoscono. Non mi sono mai sentita trattata diversamente, ma poi ho scoperto che guadagnavo meno dei colleghi. Non so se è perché sono donna, ci sto ancora pensando, non posso dirlo con certezza. Ora sono co-presidente dell’associazione registi, e abbiamo visto che solo il 23% dei progetti finanziati è di donne, anche se siamo quasi 50-50 nell’associazione. In Europa, le registe sono il 25%. Perché? Non è solo colpa dei produttori, è strutturale. Serve un cambiamento politico. In Europa siamo fortunati, possiamo lottare per regole migliori. A San Diego, in un panel, ho capito che in America è ancora più difficile: lì decide una persona, qui possiamo fare pressione come collettività e cambiare le cose. Mi dà coraggio.
Stai già lavorando al tuo prossimo film?
Sto lavorando a un film per bambini, una co-produzione Germania-Francia, con una sceneggiatura originale. Poi un altro progetto di cui non posso parlare e infine un film su tre madri single in Lussemburgo che, disperate, pianificano una rapina.
Una tragicommedia?
Ovviamente.
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