Probabilmente il bel mondo del cinema, condito dalle contesse veneziane invitate alla serata inaugurale della XV Mostra di Venezia il 22 agosto 1954, rise, si impaurì, si rassicurò grazie al finale de La finestra sul cortile diretto da Sir Alfred Hitchcock, ma conservò qualche dubbio non detto: era un semplice thriller ad alta dose di adrenalina? Era una commedia brillante ritagliata su misura per due divi al massimo del loro splendore come James Stewart e Grace Kelly? Era semplice intrattenimento adatto a una serata inaugurale tutta gioielli e lustrini? Di sicuro nessuno ebbe la consapevolezza di trovarsi davanti a uno dei più grandi capolavori della storia del cinema e all’opera più sottilmente complessa in tutta la carriera del suo autore. Non andò granché meglio ad aprile dell’anno successivo quando il film venne distribuito in Italia, pur sulla scorta di un confortevole incasso americano dopo le anteprime agostane dell’anno precedente e la distribuzione nazionale del 1 settembre. Eravamo ancora nel periodo in cui i film di Hitch’ venivano considerati alto artigianato, semplice sfoggio di mestiere e veicolo per lo star system, mai arte. La storia dice che la vicenda era più complessa. “La finestra sul cortile – scrive il massimo biografo del regista, Bill Krohn – si presta a così tante interpretazioni (il mito della caverna di Platone, il teatro filmato, uno schermo sul quale si proietta l’inconscio, un film e il suo regista, una favola ironica su Dio e le sue creature) da far dimenticare cosa offrisse al pubblico nel 1954″.
La genialità di Hitchcock sta nell’aver preso un racconto decisamente noir di Cornell Woolrich del 1942, averlo trasformato – grazie alla collaborazione del suo sceneggiatore di fiducia John Michael Hayes – in una riflessione quasi autobiografica sul mestiere del guardare, senza mai perdere di vista il suo destinatario naturale – il pubblico – che coinvolge senza che se ne renda conto in un formidabile esercizio di voyeurismo collettivo. E questo usando con arguzia e sottigliezza impagabili tutti i tiranti di un mystery dal ritmo incalzante grazie a un dosato cocktail di commedia brillante, spaventi al punto giusto e una trama talmente semplice da diventare intrigante fin dalle prime inquadrature.
Confesso che a ricordare la trama de La finestra sul cortile mi sento in imbarazzo: chi conosce il film a memoria si annoia, chi ha voglia di provarne ancora il brivido non va privato del piacere di tremare per la sorte dei suoi protagonisti, il fotografo L.B Jefferies (per gli intimi Jeff), la sua eterna fidanzata in cerca di fede nuziale Lisa Carol Fremont e perfino il misterioso e minaccioso Lars Thorwald, l’uomo della finestra di fronte. L’ambientazione è un piccolo condominio del Greenwich Village in una torrida estate newyorchese. Jeff è un reporter immobilizzato da una caduta che gli ha provocato l’ingessatura della gamba sinistra, non gli va di leggere, freme per la voglia di tornare alla sua vita da scapolo, si sente ingabbiato dalle cure della raffinata fidanzata e della governante Stella; tra un pisolino e l’altro si diverte a fare il mestiere che conosce meglio: guardare gli altri. Ogni finestra nasconde un piccolo segreto, ogni famiglia si espone inconsapevolmente alla sua curiosità, spiata con il binocolo o con il teleobiettivo della sua fedele macchina fotografica (gli esperti sapranno che è una Exakta VX). Ci sono coniugi che litigano, giovani sposini in amore, una ballerina procace, una signora che adora il suo fedele cagnolino e i coniugi Thorwald, da poco arrivati nel palazzo. A causa dell’afa tutte le finestre sono aperte e invitano alla curiosità, biasimata da Stella che ricorda con puntiglio al suo scapolo preferito che spiare a quel modo è un reato federale.
Tutto cambia quando un urlo lacerante di donna sveglia Jeff nel pieno della notte. Si convince che si tratti della Signora Thorwald e col passare dei giorni, visto che la signora sembra scomparsa, la convinzione diventa certezza: per Jeff il suo vicino ha ucciso la moglie, l’ha fatta a pezzi e sepolta da qualche parte, forse in giardino o nel seminterrato. Un amico poliziotto pensa che Jeff abbia le traveggole, Lisa e Stella lo prendono in giro, ma alla fine è proprio l’amorevole fidanzata a rischiare, entrando di soppiatto a casa Thorwald. Il rientro anticipato dell’uomo rischia di far precipitare gli eventi anche perché Jeff non può far nulla per metterla in guardia, ma se l’arrivo della polizia salva tutto, mette anche in allarme il probabile uxoricida che punta la sua attenzione proprio sul dirimpettaio impiccione. Come finirà?
Così François Truffaut riassumeva la perfetta tecnica espressiva del film: “Il regista racconta col semplice uso dei movimenti di macchina: si parte dal cortile addormentato, si passa sul viso di James Stewart che suda, sulla sua gamba ingessata, poi su un tavolo dove si vede la macchina fotografica rotta e una pila di riviste; sul muro si vedono delle foto di automobili da corsa che si capovolgono”. E’ questa l’arte implacabile che scandisce ogni svolta del racconto, fino allo showdown finale. Hitchcock adotta ogni astuzia del mestiere: soggettiva del protagonista che coincide col nostro punto di vista (con una sola, clamorosa eccezione che vi lascio scoprire e un micidiale controcampo del signor Thorwald che ci guarda tutti puntando dritto lo sguardo su ciascuno di noi), uso dello zoom e della profondità di campo, alternanza tra l’occhio al binocolo e quello della macchina fotografica, rottura della suspense con dialoghi da commedia per distrarci quando la paura sta per affacciarsi di nuovo. Insomma, pian piano ci accorgiamo che dietro la levigata crosta del mystery c’è una riflessione a molteplici piani sul senso dello sguardo. Basti dire che quando sarebbe necessario vedere (il momento dell’omicidio) Jeff dorme e noi con lui possiamo solo intuire e immaginare. Guardare può essere pericoloso, non vedere può ucciderci.
In tempi molto lontani da noi – festeggiamo adesso i 70 anni di un capolavoro che non ha perso nulla dello smalto originale – già si raccontava una storia di femminicidio. Ma sei anni dopo, nella terra natia di Sir Alfred, un altro regista inglese, Michael Powell, avrebbe risposto alla provocazione segreta de La finestra sul cortile con un’altra opera magistrale ed egualmente crudele: Peeping Tom – l’occhio che uccide mette addirittura l’arma del delitto dentro la cinepresa per far capire a tutti che guardare può essere un atto letale e che lo sguardo è a sua volta un’arma puntata sul mondo. Film seminale –come oggi dicono gli esperti – La finestra sul cortile ha generato sequel (molto al di sotto dell’originale) e luminosi epigoni come ci dicono quasi tutti i migliori film di Brian De Palma e molti degli espedienti usati da Dario Argento, a cominciare dallo sguardo vitreo della morte.
Tutto questo per dire che il capolavoro di Hitchcock ha tutte le carte in regola per stare nel pantheon del gran cinema e generare una riflessione profonda sul senso stesso dell’immagine; ma per noi che lo vediamo o rivediamo tanti anni dopo, è soprattutto un meraviglioso gioco dell’attesa, un intarsio di battute fulminanti e divertenti, un congegno a orologeria distillato sul tema della paura. E un trionfo di empatia fra i due protagonisti che vorremmo abbracciati fin dalla prima inquadratura. Invece li attende il matrimonio e, con il senno di poi, non è detto che sia proprio un happy end.
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