C’è anche un po’ di Italia in Félicité, il film del franco-senegalese (ma con ascendenze anche nella Guinea Bissau) Alain Gomis, classe 1972, al suo quarto lungometraggio (con l’opera prima L’Afrance vinse il Pardo d’argento a Locarno nel 2001). La variegata coproduzione, con capitali principalmente francesi, di questo titolo che ha vinto l’Orso d’argento – Gran Premio della giuria alla Berlinale, comprende infatti anche un contributo del laboratorio Final Cut in Venice.
Una storia vibrante – in sala il 31 agosto con Kitchen Film – che ricorda alcune situazioni dei Dardenne, specie nella prima parte, ma mescola il duro realismo a tratti quasi documentaristico del racconto, a momenti onirici insistiti (forse qualche taglio gioverebbe all’insieme) e molta buona musica, che spazia dalle esibizioni dei Kasai Allstars alla sinfonica. Protagonista è l’esordiente Véro Tshanda Beya – una cantante con qualche esperienza di teatro, venuta a Roma ad accompagnare il film in occasione del Romafrica Festival. E’ lei a tenere sulle sue spalle larghe tutto il film nel ruolo di Félicité, una donna forte, indipendente e orgogliosa (fin troppo, come vedremo), che si guadagna da vivere più che dignitosamente cantando ogni sera in un bar di Kinshasa. Un brutto giorno, però, il suo unico figlio adolescente ha un grave incidente in moto, è ricoverato con una frattura scomposta alla gamba e perderà l’arto se la madre non trova i denari per pagare l’operazione: la sanità in Congo funziona così. Sono tanti soldi e Félicité combatte come una tigre: chiede aiuto agli amici e ai parenti, implora e minaccia, incassa qualche sì e molte risposte negative, come quella del padre del ragazzo che anni prima è stata lei a lasciare e che non la vuole più vedere. In sostanza è sola se non fosse per un vicino di casa, Tabu, un uomo grosso e un po’ svitato che sta cercando di ripararle il frigorifero e che si rivelerà decisivo nella sua vita e nella seconda parte del racconto, meno concitata e più intimista.
Il film, in definitiva, è un ritratto femminile a tutto tondo ed è anche un ritratto della capitale del Congo, che viene colta e rappresentata nel suo aspetto caotico e multiforme, compresi i momenti piuttosto stranianti in cui un’orchestra sinfonica esegue Fratres di Arvo Pärt, che viene usato come contrappunto.
“Mi sono ispirato a certe donne senegalesi, forti, che rifiutano qualsiasi compromesso, affrontano la vita a testa alta e non si arrendono mai”, dice il regista. “Pur ammirandole, mi affascinava la dialettica tra lotta e rassegnazione, che è un tema comune a tutti i miei film”. Gomis racconta anche di come ha scoperto la notevole protagonista: “Un giorno, mentre guardavo un video dei Kasai Allstars, vidi questa incredibile cantante, Muabuy, con questa naturalezza e quel timbro di voce. L’ho incontrata, ma era troppo grande per il ruolo, così ho cominciato a cercare qualcuno che potesse interpretarla e mi sono imbattuto in Tshanda, emanava una tale energia che ho deciso di affidarle il ruolo anche se non aveva mai recitato e forse era troppo giovane e troppo carina. E’ riuscita ad imporsi perché incarna un desiderio, una vitalità e ha una grande immedesimazione nel recitare”.
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