L’elogio della biodiversità diventato un caso negli States

Mentre l'Amazzonia brucia, arriva al cinema dal 5 settembre con Teodora il documentario La fattoria dei nostri sogni di John Chester


Mentre l’Amazzonia brucia e il riscaldamento globale sta massacrando ghiacciai e specie marine, arriva al cinema dal 5 settembre con Teodora un documentario che getta un piccolo seme di speranza non tanto nella capacità di sopravvivenza del martoriato pianeta quanto nella buona volontà di alcuni (pochi) esseri umani. E’ La fattoria dei nostri sogni girato nell’arco di 8 anni da John Chester insieme alla moglie Molly, convinta complice e iniziatrice di questa battaglia apparentemente contro i mulini a vento. La sfida era quella di ricostruire un ecosistema a partire da un terreno riarso e svuotato a pochi passi da Los Angeles, una piccola grande farm regolata dai criteri della coltivazione biologica e della sostenibilità ambientale.

Uscito a maggio in America in sole cinque sale, grazie al passaparola e alle critiche, il documentario ha raggiunto 285 schermi, scalando la classifica degli incassi e contagiando sempre più spettatori. Apricot Lane – così si chiama la fattoria – si estende oggi per 200 acri e raccoglie circa 850 animali e 75 varietà di coltivazioni biodinamiche. Dal dicembre 2015 ospita anche Beauden, il primo figlio di John e Molly. Ma l’impresa non è stata certo facile e il film, mai noioso e mai banale, avvincente come un action, sorprendente come una favola dove il lieto fine non è scontato, mostra tutte le vicissitudini affrontate dalla agguerrita coppia insieme a uno consulente dall’aspetto hippie assai competente (purtroppo morto di cancro durante le riprese), nel ricostituire un ecosistema dal nulla, anzi con fattorie confinanti che abbondano in pesticidi. Non mancano i flagelli atmosferici, dalle tempeste alla siccità, e le invasioni di animali nocivi – dagli insetti alle talpe ai coyote – che si rivelano invece necessari, ciascuno a suo modo, a garantire la catena naturale e arricchire la biodiversità. 

“Abbiamo girato 365 giorni l’anno per quasi 8 anni – dice John Chester, in passato autore di documentari naturalistici in giro per il mondo – in questa avventura c’è stata una tensione costante tra i bisogni della fattoria e quelli del film. La cosa bella della natura e di una fattoria, in ogni caso, è che hanno dei ritmi propri e si può prevedere in anticipo cosa sta per succedere. Si tratta di osservare e stare lì ad aspettare che accada qualcosa. Questa è ovviamente la formula perfetta per girare un documentario sulla natura ma è buffo che valga anche per mandare avanti una fattoria: osservare e giocare d’anticipo. Ed entrambi richiedono una certa dose di umiltà. La vera sfida per me è stata poi la decisione di filmare anche tutti i problemi che stavamo vivendo e gli errori che abbiamo commesso… Ho dovuto mettere da parte il mio orgoglio ma sono felice del risultato finale, perché il film è molto più credibile e coinvolgente”.

“È stata un’esperienza molto dura e piena di imprevisti – aggiunge Molly Chester, chef, esperta di cibo sano, autrice del blog Organic Spark e del libro ‘Back to Butter Cookbook’ – ma ha risvegliato in me una connessione con la natura di cui neanche ero a conoscenza. La lezione più importante che ho imparato è che conquistare e sradicare non sono strategie vincenti: collaborazione e comprensione lo sono. C’è sempre qualcosa che causa ‘problemi’ nel rapporto con la natura, ma in realtà non sono problemi. Sono solo un modo in cui la terra ti sta spiegando quali sono le sue necessità, un gradino in più per raggiungere un’armonia più grande”.

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29 Agosto 2019

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