VENEZIA Passati alle Giornate degli Autori, Twilight Portrait di Angelina Nikonova e Habibi di Susan Youssef sono due film al femminile che ruotano entrambi intorno a un amore, disturbato o disturbante, sullo sfondo di una società ostile. Il primo è un’opera cruda, difficile da digerire, che dipinge con estremo realismo l’ambiguo rapporto che si instaura tra un’assistente sociale imprigionata in una vita familiare e professionale soffocante e il poliziotto che l’ha stuprata, in una Russia indifferente, violenta e degradata. Girato con un budget bassissimo con luci naturali, senza uso di trucco per gli attori e con una troupe di sole sei persone, Twilight Portrait è una sfida tecnica e artistica che deve molto alle lezioni di Thomas Vinterberg e Lars Von Trier, a cui la regista si è dichiaratamente ispirata sia dal punto di vista formale che da quello produttivo, citando persino il primo con una scena di “rivelazione” che rimanda a Festen. “L’idea della storia è nata da Olga Dihovichnaya, l’attrice protagonista che, da psicologa, era interessata ad esplorare il rapporto tra vittima e carnefice – racconta la regista – All’inizio del film il suo personaggio è sconfitto da una vita che verrebbe considerata piena e felice, con un buon lavoro e una famiglia, ma un evento distruttivo le serve a risvegliarsi. Quando la vita ti colpisce duramente, si possono trasformare gli eventi negativi in risorse per costruire un futuro. Lo stupro è un’esplosione emotiva fortissima che cambia la vita di Marina per sempre e le fa vedere per la prima volta cose che erano lì da sempre”. Twilight Portrait uscirà in Russia a novembre, e promette di produrre reazioni forti, ma Angelina Nikonova è tranquilla: “Sono pronta a ogni reazione. Questo è un film che non può lasciare indifferenti e quindi può anche essere odiato, è molto onesto e fa vedere sullo schermo cose che i russi non vogliono vedere sulla strada. Ma il cinema serve proprio a questo”.
Anche Susan Youssef, un passato e un presente da giornalista e insegnante a Beirut, è una cineasta “militante”, che ha usato i pochi mezzi a disposizione per dare potenza a una storia d’amore immersa in un contesto sociale e politico scottante. Nel suo Habibi – che riprende, attualizzandolo, il racconto arabo del settimo secolo ‘Majnun Layla’ – due giovani amanti cercano di portare avanti la loro relazione combattendo l’avversità della famiglia di lei e le difficoltà di trovarsi nella Gaza sotto assedio del 2001. Una sorta di Romeo e Giulietta sotto la pressione del conflitto arabo-israeliano. Girato in buona parte a Gaza, non senza difficoltà, e finito nel West Bank, Habibi è nato da uno spunto autobiografico della regista: “Nel 2002 ho girato un documentario a Gaza: lì ho incontrato Mohammed, il direttore di un teatro locale, di cui mi sono innamorata, e lì ho conosciuto la storia del ‘Majnun Layla’. E così ho deciso di mettere insieme le due cose raccontando la leggenda nella Gaza odierna. Se vivi a Gaza, non puoi ignorare la politica, l’occupazione ha un effetto importantissimo nella vita quotidiana delle persone. E ho immaginato in quali modi potessero accadere le cose ai due amanti”. Qui l’ispirazione arriva dai maestri iraniani Abbas Kiarostami e Mohsen Makhmalbaf, mentre i finanziamenti sono arrivati pian piano anche grazie a fondazioni e donazioni. Susan Youssef ha realizzato Habibi nel corso di nove anni, senza smettere di seguire anche altri progetti; ora ha già tre sceneggiature pronte da realizzare.
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