L’alieno dei Manetti, simbolo di incomunicabilità


VENEZIA E’ l’anno della fantascienza Made in Italy alla Mostra di Venezia, che porta in concorso L’ultimo terrestre di Gipi, in cui il fumettista usa il pretesto dell’extraterrestre per raccontare la solitudine e il confronto con il diverso, e in Controcampo Italiano L’arrivo di Wang, dei Manetti Bros., (Antonio e Marco Manetti) che si inventano un film claustrofobico in cui i servizi segreti cercano di tenere sotto controllo un “alieno cinese” sbarcato chissà come nella Capitale. “Se la fantascienza italiana arriva per la prima volta così in forze al Lido – spiegano i registi romani – probabilmente è perché c’è una generazione cresciuta con un certo cinema che oggi sta venendo fuori. Conosciamo Marco Müller e sappiamo che è appassionato del cinema di genere, prima ha portato al festival la fantascienza straniera, ora è il momento dell’Italia”. Ma questa è una fantascienza alla nostrana, dove sul gusto della spettacolarità prevale la riflessione sociale: “Alla fine il vero contenuto del film – dicono i Manetti – è l’incomunicabilità . E anche il pregiudizio e la paura del diverso e dell’ignoto”.

Il Wang dei Manetti è uno strano essere tentacolato, viscido e verdino, di fronte al quale si trova Gaia (Francesca Cuttica), giovane e idealista interprete dal cinese che all’improvviso viene chiamata per un lavoro “urgente, veloce, ben pagato e… molto riservato”. Bendata, viene portata in un luogo sconosciuto, dove Curti/Ennio Fantaschini, un agente fascistoide e aggressivo, le chiede di tradurre dal cinese un interrogatorio a quello che si scoprirà essere un alieno. Realizzato in computer grafica 3D, con una sfida tecnica notevolissima per il cinema nostrano e ancor di più per il basso budget del film (sotto i 500mila euro), Wang è stato “interpretato” dall’attore cinese Li Yong, costantemente coperto da una tuta verde (per renderne più facile la “cancellazione”).

 

Sul set, come ci hanno spiegato i registi, a lui si rivolgevano Ennio Fantastichini e Francesca Cuttica, che per l’occasione ha dovuto affrontare una full-immersion nella lingua più parlata del mondo, il cinese mandarino. Sì, perché l’alieno è sbarcato sulla Terra per “scambi scientifici e interculturali”, e grazie a un “sintetizzatore concettuale” parla quella che sperava fosse la lingua del posto in cui è atterrato. Il “polipone”, come lo apostrofa con cattiveria Fantastichini, doveva fare “un po’ tenerezza e un po’ schifo – spiegano i registi – perché il gioco del film sta proprio nel modo in cui le persone si confrontano con gli altri, portandosi dietro i loro pregiudizi”. Quei pregiudizi che, nel colpo di scena finale (che non si può rivelare per il bene del pubblico) vengono demoliti. E con cui Marco e Antonio Manetti hanno “dato una scrollata al buonismo idealista a tutti i costi”.

 

Per l’attrice, già vista in ruoli minori in La prima linea di Renato De Maria e Dieci inverni di Valerio Mieli, è stata davvero una faticaccia: “Quando ho visto la sceneggiatura mi sono spaventata. Sono stata ingaggiata solo 15 giorni prima delle riprese e ho dovuto buttarmi sul cinese. Avendo iniziato da poco a recitare, cercavo una sfida e un maestro, e ho trovato questi due in maglietta che mi hanno offerto l’occasione perfetta”. La stessa che ha avuto lo staff di digital artist della Palantir Media, che ha realizzato gli effetti visivi con la supervisione di un ex della Weta e della ILM, Maurizio Memoli, che aveva lavorato su Avatar. “Il film è proprio nato dalla voglia di sperimentarsi sugli effetti  – dicono i registi – doveva essere un corto, ma poi ci ha preso la mano”.

 

Prodotto da Dania Film, Pepito Produzioni e Surf Film con la collaborazione di Rai Cinema, L’arrivo di Wang sarà distribuito da Iris Film. “Perché non poteva essere in concorso?”, chiede qualcuno. E i registi si schermiscono: “Sarebbero sicuramente piovute proteste, siamo troppo di genere, anche rispetto a Gipi. E ci consola il fatto che nemmeno Dario Argento e Sergio Leone sono mai stati in concorso”.

autore
04 Settembre 2011

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