Un tifone in arrivo e una famiglia slabbrata che cerca di comunicare e ricomporsi. Dopo Father and Son e Little Sister, il cineasta giapponese Kore-eda Hirokazu torna con Ritratto di famiglia con tempesta, in sala dal 25 maggio con Tucker Film. Un film che mescola i generi, dal noir alla ballata sentimentale alla commedia mostrandoci umane debolezze e tentativi inefficaci di restare insieme nonostante tutto. Ryota (l’Abe Hiroshi di Thermae Romae), è un adulto mai cresciuto. Dopo un primo, promettente romanzo che ha vinto un premio letterario, sembra aver sprecato il suo talento precoce: giocatore d’azzardo incallito per vivere fa l’investigatore privato (e non esita a ricattare i suoi clienti). Marito inaffidabile vede il figlio ancora piccolo una sola volta al mese e non riesce mai a pagare gli alimenti alla ex moglie, che sta per sistemarsi con un ricco agente immobiliare. Ha da poco perso il padre e cerca soldi anche dall’anziana madre (Kirin Kiki, apprezzata in Le ricette della signora Toku) che invece ha trovato un suo equilibrio tra insoddisfazioni e timori. Visto a Cannes in Un Certain Regard, Ritratto di famiglia è stato anche designato come Film della Critica dal Sncci con la seguente motivazione: “Per la profonda sensibilità e l’equilibrio tra realtà, dramma e commedia con cui il regista, attingendo alla tradizione di Ozu, descrive lo scarto tra attese e disillusioni nella storia di un uomo, che non ha saputo tenere fede alle aspettative di successo offertegli dalla vita ma non ha rinunciato alla speranza della dignità di fronte a se stesso, al figlio e alla famiglia”.
Da cosa nasce il film?
Negli ultimi dieci anni della mia vita è venuta a mancare mia madre e ho avuto un forte senso di perdita, anche perché sentivo di non essere stato il figlio che avrei voluto essere. Nel frattempo sono anche diventato padre ed è cambiato il ruolo che avevo dentro la famiglia. Così ho potuto riflettere su questi legami e su come ci troviamo a riempire ciò che ci era venuto a mancare. Tutte le mie ultime opere ruotano attorno a questo.
E come le è venuto in mente il personaggio principale?
Mentre Little Sister era tratto da un’opera letteraria in questo caso la sceneggiatura era originale e mi ha portato a fare delle scoperte. Sono partito da un pensiero: “Non tutti diventano quello che volevano essere”. Così è venuto fuori Ryota, un improbabile investigatore privato che avrebbe voluto essere romanziere. Ho pensato al personaggio e a come inserirlo nelle situazioni, creando reazioni chimiche e osservandole come in un documentario. Sul set spesso brancolavo nel buio, ma ho cercato di ottenere il meglio da questa situazione.
Di nuovo lei torna a parlare del difficile rapporto tra padre e figlio nelle sue molte sfumature. Il personaggio del bambino è quasi simbolico, sembra l’unico in grado di tenere viva una speranza ancora intatta.
Non proprio. Gli adulti non sono riusciti a realizzare ciò che desideravano, il bambino non riesce neanche a immaginare un futuro, non ha un sogno in particolare. Mentre è il protagonista Ryota a non aver perso la speranza, nonostante i fallimenti. Il ragazzino si accontenta, anche nel baseball non pensa a un colpo spettacolare. Qui ci sono tre generazioni a confronto.
Una donna sovrappone le sue storie d’amore come in un dipinto a olio, ciò che era sulla tela non viene cancellato ma solo ricoperto da uno strato successivo… Nel film si spiega così il rapporto con gli amori finiti e con gli ex.
Ho fatto varie ricerche per il film, che si basa sulle mie esperienze di vita, ma anche sulle testimonianze di varie donne divorziate il cui ex marito non pagava gli alimenti: in loro c’era ancora amore, sempre, anche se sembrava sparito, qualcosa rimaneva.
Il film è in qualche modo dedicato a sua madre con questa commovente e autentica figura di donna anziana che ha compreso la vita in profondità.
Anche in Still Walking, del 2008, c’è la presenza di mia madre e l’attrice è la stessa, Kirin Kiki. Il personaggio di questo film si deve per metà all’attrice e per metà è ispirato a mia madre, ad esempio nella sua grande pazienza che è quasi un lasciarsi andare. Kirin, quando abbiamo cominciato la preparazione del film, che dovevamo girare in questo quartiere di case popolari, mi ha chiesto un oggetto di mia madre, io le ho portato i suoi occhiali da lettura. Quando li indossa, mi commuove profondamente, perché sembra davvero mia madre.
C’è molto non detto, una grande incomunicabilità tra i suoi personaggi.
Non so se sia una caratteristica tipica dei giapponesi, ma spesso noto che si finisce per non dirsi le cose. Spesso a livello verbale ci esprimiamo con scuse, piccole bugie, forme di vanità, insomma non diciamo cosa pensiamo realmente. Tengo molto in considerazione questo aspetto dell’essere umano. È l’approccio più realistico.
Aveva già lavorato con Abe Hiroshi e Kirin Kiki in Still Walking.
E’ vero e desideravo lavorare ancora con loro, sempre nel ruolo di madre e figlio, ma anni dopo. Ho scritto questo soggetto proprio pensando a loro due.
Continuerà a raccontare storie di famiglia?
I miei ultimi film sono stati dei drammi familiari, ma il prossimo sarà un dramma giudiziario a proposito di un omicidio. Mi interessa il rapporto tra l’accusato e la famiglia della vittima.
Lei è considerato da molti come l’erede di Ozu.
La mia carriera è cominciata nel ’95 grazie alla Mostra di Venezia quando il mio film Maborosi vinse l’Osella d’oro come migliore opera prima: è stato così che ho potuto continuare. E devo dire che l’Italia è molto importante per me, quando ero uno studente universitario avevo visto dei film di Fellini e mi avevano spinto a fare questo lavoro.
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