Il vino, la campagna, la famiglia, le radici. Cedric Klapisch racconta l’incontro fra i giovani globalizzati e nomadi e l’archetipo francese della tradizione, quello della cultura enologica. “Sono entrato dentro la cultura dei ‘vignerons’, quelli che fanno il vino, personaggi particolari e diversi da chi abita in città ma anche da chi vive in campagna”, spiega il regista all’Ansa. Il suo Ritorno in Borgogna, in uscita nelle sale italiane il 19 ottobre con Officine Ubu, aveva come titolo originale Ce qui nous lie (Quello che ci lega). A tornare in famiglia dalla lontana Australia, dove se n’era andato 10 anni prima, è il primo di tre fratelli, Jean (Pio Marmai). Torna nel grande vigneto di Meursault in Borgogna per rivedere il padre sul letto di morte. Rivede la sorella Juliette (Ana Girardot) e il fratello Jeremie (Francois Civil), con i quali ora deve condividere nuove responsabilità. In particolare, trovare una grossa somma di denaro con la quale pagare le tasse di successione. Al ritmo del susseguirsi delle stagioni, i tre giovani adulti riscoprono e reinventano i legami familiari, uniti dalla passione per il vino.
I temi sono tutti anche nella tradizione italiana: “Siamo due paesi molto vicini sul rapporto con il vino e con la terra – dice Klapisch – l’Italia ha inventato lo ‘slow food’, la nozione di qualità dei suoi prodotti, su molti di questi aspetti è anche avanti rispetto alla Francia. Protagonista del film è la nuova generazione che si inserisce su un tema antico come il vino. I tre fratelli reinventano un loro modo di fare vino. Ed è accaduto davvero in questo nuovo secolo, con una generazione che ha anteposto i temi dei prodotti biologici, così lontani dagli anni ’70. Allora l’argomento dominante era il ritorno alla terra, l’ecologia. Oggi i ventenni, i trentenni non sono affatto ecologisti come negli anni ’70”.
“Ritorno in Borgogna – continua Klapisch – è una storia di qualità di vita. La gente sa che ci sono cose interessanti in città ma anche in campagna. E chi fa il vino oggi ama tutte e due. La cultura della vite, rispetto a quella del grano o dell’allevamento, ha anche molto bisogno di una cultura generale. I ‘vigneron’ sono gente che viaggia molto, che conosce i paesi stranieri, gente spesso molto sofisticata, in genere filosofi, poeti. Per fare il vino bisogna avere un alto livello di cultura, diverso comunque da chi lavora la campagna in generale. Non è un caso, per esempio, che ci sia stato un dio romano, un dio greco per il vino e non per il grano…”.
“Il film racconta il tempo che passa – sottolinea il regista – con il vino che invecchia e diventa migliore. Come nelle stagioni dell’uomo, sei bambino, poi adulto, e cerchi di essere migliore. Poi c’è la natura, la famiglia, i suoi traumi che sedimentano come un vino che si deposita e mantiene, oppure smarrisce, le tracce dell’infanzia, della giovinezza”.
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