Chi si ricorda di Raffaele Minichiello? Nonostante sia stato protagonista del dibattito pubblico per mesi in Italia e in USA, nonostante possegga una pagina Wikipedia e un record imbattibile al Guinness dei primati, probabilmente saranno in pochi. È per questo che un documentario come Kill me if you can, realizzato da Alex Infascelli, ha una precisa ragion d’essere: consegnare definitivamente al pubblico una storia incredibile che ci dice tanto dell’evoluzione della società occidentale negli ultimi 50 anni.
È il 31 ottobre 1969 quando il nome di un giovanissimo Marine italo-americano, pluridecorato reduce del Vietnam, comincia a diffondersi sui media statunitensi e poi, man mano, di tutto il mondo. È proprio Raffaele Minichiello, ventenne di bell’aspetto e dallo sguardo dolce, originario di un piccolo paese in provincia di Avellino, che si è reso artefice di un gesto che all’epoca era più comune di quanto si possa pensare: un dirottamento aereo. Armato di una carabina appena comprata, folle di disperazione e affetto da un – ancora non diagnosticato – disturbo da stess post traumatico, Raffaele riesce a farsi portare – tappa dopo tappa – da Los Angeles fino a Roma, dove viene catturato dopo una breve fuga senza avere ferito mai nessuno. Si tratta del dirottamento aereo più lungo nella storia dell’aviazione civile. È questa la vicenda che rappresenta l’incidente scatenante del documentario di Infascelli, nonché l’atto che segnerà per sempre la vita di Minichiello: sorprendentemente non lo farà in negativo.
Kill me if you can non si esaurisce affatto nell’avvincente racconto di quelle assurde 24 ore, ma va ben oltre, rendendoci partecipi dell’intera vita di Raffaele Minichiello: dalla negata estradizione negli USA, dove avrebbe rischiato la pena di morte, al processo in Italia, che si concluderà con una sorprendente sentenza, fino ad arrivare alla sua vita in un’Italia dove viene trattato quasi come una star. Non è un caso che su di lui spenderà parole dolci lo stesso Pier Paolo Pasolini, che lo difenderà per il suo “occhio riderello”, e che viene considerato, addirittura, la fonte d’ispirazione principale per il personaggio iconico di Rambo interpretato da Sylvester Stallone. Come lui, infatti, condivide una fragilità emotiva causata dal trauma bellico e dalla negligente mancanza di assistenza da parte della nazione per cui lui era stato disposto a morire. Una fragilità che non lo abbandonerà mai e che lo porterà a compiere più di una scelta anti-sociale, di cui il dirottamento è solo il primo e clamoroso esempio.
È lo stesso Minichiello a raccontare alla camera di Infascelli i restanti 50 anni della sua vita, fatti di tante piccole gioie e di tantissimi momenti di grande dolore. Le scelte più o meno controverse, gli amori, la famiglia, i lutti: in quella che – nelle sue macro-dinamiche – potrebbe sembrare una vita come tante altre, si legge invece lo spirito di un uomo fuori dal comune, forse non per talento, ma di certo per predisposizione. Un uomo che di fronte alle difficoltà ha imparato ad armarsi e a sfidare frontalmente un nemico che, a volte, più che nel mondo reale, sta nella propria testa. Proprio lì, dove sull’elmetto che indossava per proteggersi dai colpi dei vietcong, il giovane Marine aveva scritto il suo motto di vita (e di morte): “kill me if you can”.
Dopo l’anteprima all’ultima Festa del Cinema di Roma, il film uscirà nelle sale italiane come evento speciale dal 27 febbraio al 1 marzo, distribuito da Wanted Cinema.
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