Ken Loach: “Le piccole sale sopravviveranno, come il teatro”

“Sono stato in lockdown per quasi un anno, mi sento come una vecchia automobile ferma in garage che non sai più se potrà ripartire”. ​A dirlo è Ken Loach nel corso di un collegamento con MioCinema


“Sono stato in lockdown per quasi un anno, mi sento come una vecchia automobile ferma in garage che non sai più se potrà ripartire. Ho una certa età e non so se ho la voglia e l’energia di fare un altro film, anche se Paul Laverty, il mio sceneggiatore, è giovane e pieno di idee e mi sprona”. Così, non senza la garbata e dolce ironia che lo contraddistingue da sempre, Ken Loach scherza nel corso di un collegamento con MioCinema, la piattaforma che propone una rassegna a lui dedicata con molti dei suoi film di culto.

In dialogo con Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, e con la traduzione di Gioia Smargiassi, il regista britannico ha parlato al pubblico italiano per quasi un’ora toccando tanti argomenti, dalla politica, sempre suo tema d’elezione, al coronavirus alle prospettive delle sale dopo la fine della pandemia e ha concluso con la parola d’ordine ‘solidarietà’, al cinema e nel mondo.

Regista coerente e molto amato sia dal pubblico che dalla critica – uno dei pochi a mettere d’accordo tutti – ha fatto incetta di premi con una doppia Palma d’oro, il Leone alla carriera, l’Orso alla carriera, il Pardo d’onore di Locarno e il Premio alla carriera degli EFA. “Sono attratto dalle storie della vita di tutti i giorni – ha esordito Ken – perché sono le storie della maggior parte di noi, noi che combattiamo quotidianamente per avere un tetto sulla testa, un lavoro decente, per crescere ed educare i nostri figli e cercare di non finire in povertà da anziani, tutte questioni che hanno potenza drammaturgica. La working class affronta problemi più interessanti delle elite viziate dal denaro e poi gli operai hanno le battute e barzellette migliori. Sono certo che il cambiamento della società arriverà dal basso e non da chi detiene ha i soldi e il potere”.

Nel suo cinema con titoli come Terra e libertà, Sweet Sixteen, Il vento che accarezza l’erba (Palma d’Oro a Cannes 2006), Il mio amico Eric, La parte degli angeli e Io, Daniel Blake (seconda Palma d’Oro nel 2016) c’è sempre un misto di dramma e scherzo in dosi quasi uguali. “Perché la vita è così, non sempre tragica e spesso venata di sana ironia. Chi fa un lavoro duro, nell’edilizia o nei porti, nei cantieri e nelle miniere, o in fabbriche, ha sempre voglia di prendere in giro qualcuno, il compagno di lavoro grasso, quello che arriva in ritardo, il caporeparto rigido. È così che si superano le avversità. Ma non dimentichiamo che questi lavoratori sono in prima linea nella lotta di classe. È gente che si spacca la schiena per far guadagnare qualcun altro, a volte per un salario decente e volte nemmeno quello, perché i padroni cercano di pagare sempre meno gli operai per aumentare i profitti. Il lato comico viene dalla commedia umana della sopravvivenza e dal conflitto perenne”.

Il lavoro non è un tema molto amato, se non da registi speciali come Loach o il francese Guédiguian. Come mai? “Passiamo la maggior parte del nostro tempo al lavoro ed è quello che ci ha sempre definito, con un senso di orgoglio e di dignità, persino nei nomi che venivano ricalcati sui mestieri. Ma ultimamente l’idea del lavoro fisso è stata stravolta, è in atto una precarizzazione che si accompagna a un grandissimo sfruttamento, gli stipendi sono sempre più bassi, si può essere licenziati dall’oggi al domani. Purtroppo, le major non hanno interesse a investigare ciò che succede, ma cercano piuttosto di celebrare la ricchezza e l’individualismo, di raccontare storie eccessive e violente che non hanno niente a che fare con la vita di tutti i giorni. Se ne fregano di parlare del fattorino o dell’addetto alle pulizie nei film che producono”.

Loach non di tira indietro e racconta anche il suo metodo di lavoro sul set, che lo porta quasi a ‘sparire’ dietro la macchina da presa. “Tutti gli orpelli creati dall’industria servono solo a ostacolare gli attori. La prima grande regola per un regista di cinema realistico è far sì che la storia avvenga e che il pubblico creda al personaggio. Se trovi persone credibili per il ruolo, che lascino trapelare dal loro corpo, dal modo di muoversi, quello che sono, già hai fatto tanto. Possono essere attori professionisti, ma non necessariamente, c’è tanto talento anche nelle persone comuni. E poi Paul Laverty riscrive spesso i ruoli su misura. Poi bisogna metterli a proprio agio. Io giro in continuità, dalla prima all’ultima scena, e questo rende più facile la lavorazione. Mantengo la sorpresa, non svelo tutto prima, in modo che le riprese siano un’avventura che viviamo insieme. Faccio sentire gli attori a loro agio, voglio che si divertano. Li considero tutti uguali, da me non ci sono prime donne. Faccio in modo che la tecnologia stia in disparte, niente luci puntate in faccia, troupe leggera e minimalismo, intimità sul set”.

Non manca una riflessione sul futuro delle sale, quasi una profezia. “Credo che ci sarà una divaricazione tra il cinema indipendente, quello delle piccole sale europee ma anche americane, con i film destinati alle persone che amano il cinema non commerciale. Queste sopravviveranno come il teatro è sopravvissuto alla televisione. Invece i grandi multiplex dove si proiettano solo blockbuster, che adesso vengono distribuiti in streaming, avranno maggiori problemi. Nelle case ormai ci sono schermi giganti e le persone si sono attrezzate alla visione casalinga”. 

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16 Dicembre 2020

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