Una storia vera, quella di Olfa, donna tunisina e madre di quattro figlie. Carattere indurito dalle esperienze di una vita faticosa, alla merce’ degli uomini e della povertà, in una società tradizionalista e soffocante. Ma a soffocare le sue quattro figlie è anche lei stessa, tramandando il trauma di cui è stata vittima a sua volta. Finché le due maggiori non fanno una scelta radicale, aderire a Daesh e fuggire in Libia.
La regista tunisina Kaouther Ben Hania, autrice dell’intenso La bella e le bestie, su uno stupro di gruppo, e de L’uomo che vendette la sua pelle, ha deciso di raccontare questa storia ascoltata alla radio, trasformandola in qualcosa di nuovo, attraverso il meccanismo del re-enactment. Attrici professioniste hanno affiancato le protagoniste della vicenda, ovvero Olfa e le sue due figlie minori, per rimettere in scena la storia di questa famiglia tutta al femminile ma segnata dal patriarcato e dalle presenze-assenze maschili (un solo attore interpreta tutti i ruoli maschili). Un documentario, dunque, tra l’altro candidato all’Oscar in questa categoria, ma che assume il linguaggio della messinscena teatrale per consentire alle vittime di prendere voce ma anche per mettere in luce le ombre di una figura materna carica di contraddizioni. In concorso a Cannes 2023 e vincitore del premio L’Oeil d’or al miglior documentario, Quattro figlie, che sarà in sala dal 27 giugno con I Wonder Pictures, trova in Hend Sabri un alter ego di Olfa, uno specchio in cui la donna riesce finalmente a guardarsi senza pudori in un film di continui rispecchiamenti. Le altre attrici, Nour Karoui e Ichraq Matar, prestano volto e voce alle figlie scomparse e alle loro motivazioni.
Come ha lavorato allo stile ibrido del film?
Ho passato molto tempo a riflettere sulla forma necessaria a raccontare questa vicenda. Mi interessava tuffarmi nel passato di questa famiglia per comprendere le origini della tragedia. Ma per filmare ciò che era accaduto in forma documentaria mi serviva una tecnica che riportasse al presente la vicenda. Dunque il meccanismo del re-enactment. Lo so che è diventato un po’ un cliché di certo cinema, ma io sono partita da questo per fare una cosa diversa. Ho chiesto ai personaggi reali di dirigere le attrici per riportare in scena il vissuto e poterlo decostruire. Questa idea ha funzionato molto bene ed è stato il modo giusto per raccontare questa storia facendone il viaggio introspettivo nel passato di una famiglia di donne per comprendere perché queste due ragazze sono partite.
Si racconta il caso di due ragazze che lasciano la famiglia per unirsi a Daesh, due giovani donne che abbracciano l’islamismo radicale.
C’è stata un’espansione e successivamente un declino dello Stato islamico in paesi come la Siria, l’Iraq e anche in Libia. Molti giovani sono partiti, tra questi anche le ragazze. Il caso delle figlie di Olfa si è verificato anche in altri paesi, in Francia e in Inghilterra ad esempio, ma concentrato in quel periodo. E’ stato attorno al 2016 che ho cominciato a lavorare a questo progetto.
La madre è una figura contraddittoria, una donna che ha sofferto molto, ma che tende a essere autoritaria con le figlie, ad annientare la loro sessualità e femminilità. L’adesione a Daesh potrebbe essere letta come un gesto di ribellione.
E’ così. Quando ho incontrato Olfa, all’inizio, mi sono resa conto che recitava con grande talento tragico la parte della madre in lutto, divorata dai sensi di colpa, una parte che aveva messo a punto nelle varie interviste televisive. Invece io volevo esplorare le ambiguità dell’animo umano e portarla fuori da questa recita.
Andando un po’ più a fondo, mi pare che il film voglia essere una decostruzione della figura materna, fuori dalle idealizzazioni.
In generale la figura della madre è idealizzata ed è normale che sia così perché dà la vita. Volevo fare questo film per mostrare anche il lato oscuro della maternità, il lato tossico. Io sono stufa di queste idealizzazioni della maternità e della paternità, come del rispetto forzato degli anziani. C’è una ribellione rispetto alle generazioni precedenti. E la figura di Olfa ci permette tutto questo. E’ un personaggio importante perché contiene tutte le contraddizioni possibili e immaginabili. Ecco perché l’ho messa a confronto con un’attrice che la interpreta in modo che lei stessa possa vedere questo meccanismo di madre tossica e anche sadica, pur amando le sue figlie. Sono contraddizioni che trovo molto interessanti.
Il film ha modificato i rapporti di forza all’interno della famiglia con una qualità in qualche modo terapeutica?
Durante le riprese le due figlie minori erano contente, c’era una specie di eccitazione in loro nel fare il film perché potevano finalmente avere una voce, mentre prima era solo la madre a contare e parlare. Il fatto di dirsi delle cose in faccia sentendosi protette ha cambiato il loro rapporto. Le riprese hanno permesso a Olfa di capire cosa era successo con le due figlie maggiori che sono partite e che poteva accadere la stessa cosa con le due più piccole. Le piccole erano là per dirle di cambiare atteggiamento. Mentre con le maggiori non c’è stata nessuna discussione, sono sparite e basta, ed è stata una specie di vendetta, ora Olfa si è evoluta e per la prima volta ha visto cosa era accaduto veramente con le sue figlie. Ha avuto la possibilità di comportarsi diversamente e la relazione in famiglia è molto migliorata dopo il film. Siamo sempre in contatto, ci vediamo abbastanza spesso e so che le cose vanno meglio.
Le due figure maschili sono molto negative, sono due uomini predatori, ciascuno a suo modo, interpretati da uno stesso attore. È uno specchio del maschile nel mondo islamico?
Olfa non rappresenta tutte le donne, così gli uomini della sua vita non rappresentano tutti gli uomini. Se decidessi di fare un film così, sarebbe un brutto film. Non mi interessa la rappresentazione dell’intera società, ma un caso molto particolare che contiene in sé una tragedia, un conflitto. Se non c’è conflitto, non c’è il cinema. Questa è una cosa che mi dicono spesso perché vengo da un paese del Sud del mondo e non ci sono molte rappresentazioni della Tunisia al cinema. Quando vedi un film americano su un serial killer non ti viene in mente che quel personaggio rappresenti l’americano medio.
Il film è stato candidato all’Oscar, come anche il suo precedente, L’uomo che ha venduto la sua pelle, che esperienza è stata?
Una follia. L’uomo che ha venduto la sua pelle era stato nominato come miglior film internazionale per la Tunisia, mentre questo è stato candidato per il documentario. Gli Oscar sono come una campagna elettorale, bisogna convincere i votanti a vedere il film, è una lunga maratona negli Stati Uniti con tante proiezioni.
In quel film c’era, tra l’altro, Monica Bellucci. Com’è arrivata a lei?
La amo molto, penso che tutti la amino. Nel film c’era questo ruolo di gallerista e io avevo pensato a lei, ma non credevo di poterla avere. Invece il mio produttore mi ha detto che conosceva il suo agente e che le poteva inviare la sceneggiatura. Monica l’ha letta, anche perché aveva visto il mio film precedente, La bella e le bestie, e le era piaciuto molto. Così ha detto di sì.
In futuro continuerà con il documentario?
È sempre il film che mi propone la sua forma. Amo mescolare i generi, questo mi offre degli strumenti e una forma di freschezza. Adesso ho un progetto di finzione ma non ne voglio ancora parlare.
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