Una commedia romantica, un divertente spaccato sulla capacità di sopravvivenza delle coppie interculturali, sui cliché affibbiati ai vari popoli e sui diversi approcci nei confronti del sesso, sullo sfondo di una Parigi allo stesso tempo romantica e minacciosa. 2 giorni a Parigi, l’esordio alla regia dell’attrice Julie Delpy – già passato con successo alla Berlinale (nella sezione Panorama) e al Tribeca Film Festival – è tutto questo, ma anche lo sforzo creativo di un’attrice che non si è accontentata soltanto di passare dietro la macchina da presa, ma ha voluto occuparsi anche della sceneggiatura, della produzione, del montaggio e delle musiche. Lei (la stessa Delpy) è una parigina emancipata e disinibita che, di passaggio nella sua città natale, rincontra una lunga serie di ex; lui (Adam Goldberg), è un newyorchese un po’ paranoico che si ritrova catapultato tra le abitudini bizzarre della sua fidanzata, della sua strana famiglia e dei suoi amici. In attesa di arrivare sul set della sua opera seconda The Countess, un dramma in costume pieno di omicidi, crudeltà e intrighi con Ethan Hawke, William Hurt e Daniel Brühl, Julie Delpy – che con la sceneggiatura di Prima del tramonto ottenne una nomination all’Oscar – è passata a Roma per promuovere il suo film, che in Italia uscirà venerdì 28 in 20 copie con DNC.
Perché per il suo esordio alla regia ha scelto di fare tutto da sola e di occuparsi anche del montaggio, della produzione, delle musiche? Cosa è stato più difficile?
Scrivere, recitare, dirigere e montare il film mi è piaciuto, ed è stato facile. Ho dovuto farlo semplicemente perché non avevo il denaro per pagare un montatore, né un compositore… Ma la cosa più difficile è stata chiedere in giro i soldi per montare la produzione. I potenziali finanziatori mi chiedevano sempre a cosa assomigliasse 2 giorni a Parigi, se a Harry ti presento Sally o a Rush Hour. Poiché non somiglia a nessuno dei due, ricevevo sempre dei rifiuti.
Come è riuscita a sdoppiarsi sul set, dovendo sostenere contemporaneamente i ruoli di attrice e di regista?
L’ho fatto senza riflettere troppo. Ho recitato come faccio sempre, cioè saltando nel personaggio un secondo prima dell’azione e uscendone un secondo dopo il cut. Non amo quei metodi, molto seri e pomposi, che ti impongono di rimanere nel ruolo tutto il giorno. Questo mi ha facilitato le cose, anche se c’è bisogno di una buona dose di schizofrenia: da regista davo gli ordini a me stessa come attrice, e al montaggio ho dovuto trovare il giusto distacco per tagliare il film e non affezionarmi troppo ad alcune scene che avevo recitato particolarmente bene.
Ci sono citazioni di diversi film, tra cui Viaggio in Italia di Rossellini.
E’ uno dei miei film preferiti e sicuramente il più bello che sia mai stato fatto sulle difficoltà delle coppie e sul miracolo che le tiene unite. So di non essere Roberto Rossellini e so che non lo sarò mai. Ma ho provato a raccontare le stesse cose con un film diverso, in cui c’è più commedia e più sesso.
I francesi non escono benissimo da questo film.
Nel film mostro un tassista razzista, e mio papà che riga le macchine parcheggiate sul marciapiede, ma non ho esagerato in questo: ho conosciuto dei francesi così e anche peggiori, ho solo messo la macchina da presa davanti a loro. Il film è andato bene in Francia, ma alcuni miei concittadini ne sono rimasti violentemente scioccati, e ho addirittura ricevuto insulti e minacce. I francesi hanno dei problemi con l’autocritica, tant’è che gli unici film che li descrivono criticamente sono stranieri, come Orizzonti di gloria di Kubrick e La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Al contrario gli americani, di cui non amo molte cose, sono capaci di una forte autocritica.
Nel film c’è anche un cameo di Daniel Brühl. Come ha scelto gli interpreti?
Ho scritto i ruoli su di loro. Sapevo che il protagonista sarebbe stato Adam Goldberg e ho lavorato su di lui, e quando Daniel ha accettato la parte, gli ho ritagliato apposta un cameo su uno strano contestatore no-global che dà fuoco ai fast food.
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