“C’è un delfino dormiente in ognuno di noi, libero di vivere seguendo ciò che è necessario”, sosteneva Jacques Mayol, apneista ed ecologo inesorabile e intransigente, che, partendo dall’origine acquatica dell’uomo e della vita, aveva teorizzato l’esistenza dell’uomo-delfino, come modello di apneista del futuro, che si immerge con la stessa gioia di vivere delle foche e dei mammiferi marini, contrapposto all’uomo-tecnologico, divorato dagli oggetti che lo circondano e dalle ambizioni insaziabili di conquista. “L’Homo delphinus sarà un uomo che avrà compreso di non essere estraneo alla Natura”, diceva nei suoi scritti in cui sottolineava l’importanza di vedere il mare come l’elemento principale della vita e non come frontiera da conquistare o sfruttare. “Saprà che dal microbo alla balena azzurra, che non gli sono né inferiori né superiori, tutto è connesso. Saprà che non vi sono paratie stagne né fra il corpo e la psiche, né fra lui e l’universo infinito, incommensurabile e non-temporale”.
L’immersione profonda vissuta e tramandata da Mayol a generazioni di atleti non come sport estremo competitivo ma come modo di vivere il mare e se stessi, trattenendo il respiro come fanno i ‘cugini’ delfini, protagonista del documentario di Lefteris Charitos L’uomo delfino, che ripercorrere la straordinaria storia di quest’uomo, che già aveva ispirato il film culto Le Grand Bleu di Luc Besson, e che ora arriva nelle sale italiane il 5, 6 e 7 ottobre con Wanted Cinema, con la voce narrante di Jean-Marc Barr, proprio l’attore che aveva interpretato Mayol nel film di Besson. “Sono come un animale selvaggio, vivo intensamente il momento”, diceva Mayol quando decise di provare l’impensabile, arrivare a cento metri sott’acqua, convinto che l’uomo non avesse limiti. Proprio quando la fisiologia medica asseriva che il corpo umano non poteva andare oltre, per un limite tutto fisico. Un po’ come dissero anche al suo eterno sfidante Enzo Maiorca, che per primo toccò l’emblematica quota dei -50 metri, ritenuta la soglia dopo la quale il corpo sarebbe imploso per la pressione. “Fermatevi perché il corpo si rompe”, ammoniva la scienza, clamorosamente smentita dalla grandezza di uomini capaci di infrangere i muri.
Ne L’uomo delfino ritroviamo tutta la follia e la visione di un uomo carismatico e complesso, che è riuscito a superare i limiti del corpo e della mente, per scoprire la più profonda affinità tra gli esseri umani e il mondo acquatico. Atleta ma anche filosofo e avventuriero, amante delle donne e della compagnia ma profondamente solo. Un nomade con pinne e maschera in mano, che ha viaggiato in tutto il mondo, dal Mediterraneo al Giappone all’India alle Bahamas. Capace di controllare fino all’impensabile l’atto terrestre del respirare, per poi scegliere di morire suicida, togliendosi il respiro, nella sua casa-rifugio all’isola d’Elba. “Il film tratta questioni essenziali dell’esistenza umana: la morte, i limiti del corpo, il ritorno alla natura, le trappole dell’ambizione personale e della fama, l’equilibrio del corpo e dell’anima attraverso la meditazione – sottolinea il regista – Questi sono i temi dominanti della vita di Mayol e che guidano la narrativa del film”.
Nella pellicola, oltre alle testimonianze dei suoi più stretti amici, collaboratori e familiari, tra cui i suoi figli Dottie e Jean-Jacques, alcuni campioni mondiali di apnea conducono lo spettatore verso il blu assoluto dell’abisso, un mondo profondo fatto di tenebre e silenzio, il cui accesso è riservato solo a pochi, dove si va non per guardare ma per guardarsi dentro, per immergersi in se stessi e sfidare il proprio limite. Per scegliere, ogni volta, di risalire a riprendere aria, a rompere la superficie con il viso, a dare quel primo profondo respiro fuori dall’acqua, che sa di sfida ma anche di rinascita.
A raccontare la preparazione alla discesa il campione William Trubridge, che parla del momento cruciale che precede il contatto del viso con la superficie, che è come una linea bagnata che separa due mondi. La concentrazione estrema prima di riempire i polmoni con l’ultima boccata di vita terrestre, quel solo e unico respiro che porterà così lontano. Il trattenere il fiato, che non è contrazione fisica né lotta, ma immersione nell’onda del sentire; e poi l’ultima bracciata data a trenta metri, prima della caduta libera. Per lasciarsi scivolare nell’abisso con la velocità che aumenta, con il corpo lanciato sempre più lontano dal suo elemento essenziale per sopravvivere, l’aria. “Immergersi in profondità è immergersi in se stessi, e Mayol è stato il primo a portare questo concetto nell’apnea. Il silenzio della profondità fa tacere anche le chiacchiere mentali della nostra quotidianità. Un esistere nel silenzio totale, nella sospensione del fiato trattenuto”, spiega Trubridge che ammonisce: “Quando diventi competitivo, a un certo punto della tua carriera, quella sarà la causa del tuo declino. La tua motivazione deve venire da qualcosa di molto più profondo”.
A far vivere, invece, allo spettatore ciò che succede al corpo, messo alla prova dagli abissi ogni volta che si allontana dalla sua natura di terrestre, un protagonista assoluto della storia recente dell’apnea, Umberto Pelizzari, fondatore di Apnea Academy che ha concluso la sua carriera agonistica nel 2001 con il record in assetto variabile dei -150 metri: “Sott’acqua le sensazioni che accompagnano in un mondo normale scompaiono, il cuore rallenta e batte pianissimo, dodici o tredici battiti al minuto. Il corpo assume un peso diverso, la forza gravitazionale insiste in modo differente. A cento metri i polmoni diventano più piccoli, sono un sedicesimo, poco più grandi di una mela, un pugno chiuso. Il sangue si sposta dagli arti periferici, la pressione schiaccia i muscoli: per ogni centimetro di pelle ci sono sedici chili di peso”. Un corpo che quasi svanisce e galleggia in forme nuove, mentre la mente, più forte, lo guida nel suo viaggio interiore nelle profondità del mare.
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