“Io sono un po’ matto. E tu? è un grido d’allarme urlato con forza al nostro Paese: non ce ne rendiamo conto, ma in Italia ci sono 17 milioni di persone che convivono con un disturbo psichico, e se ci metti a fianco una mamma, un papà e un fratello, siamo a due terzi della popolazione che è a contatto direttamente o indirettamente con la malattia mentale”.
Così, alla vigilia dell’uscita in sala della sua ultima ‘creatura’, Dario D’Ambrosi ne svela la prima ragion d’essere a CinecittàNews.
Il film è un’opera unica nel cinema italiano, diretta e sceneggiata dallo stesso creatore del Teatro Patologico, da lui fondato nel 1992 per aiutare le persone con disabilità mentale a uscire dall’isolamento attraverso la teatro-terapia, con l’obiettivo di integrarsi e vivere una vita simile a qualsiasi normodotato. Il film sfoggia un cast d’eccezione: Claudio Santamaria, Raul Bova, Stefano Fresi, Claudia Gerini, Edoardo Leo, Vinicio Marchioni, Marco Bocci, Stefania Rocca, Riccardo Ballerini, Domenico Iannacone e lo stesso Dario D’Ambrosi, al fianco di 30 attori disabili della Compagnia Stabile del Teatro Patologico.
“È un’avventura straordinaria” – continua D’Ambrosi – “da come è iniziata a come si sta sviluppando, con più di 150 sale in Italia per un film girato in 24 ore… non intendendole come solari, ma proprio sommando il tempo che complessivamente sono riusciti a regalarmi i ragazzi e gli attori professionisti”.
Claudia Gerini aveva già partecipato a un film con i ragazzi del Teatro Patologico, per gli altri attori professionisti è stata la prima esperienza con loro. Com’è andata sul set?
“Claudia è da sempre disponibile con noi, a tutti gli orari, partecipa a tanti nostri progetti, è anche la madrina del Festival Internazionale del Cinema Patologico, l’unico festival del mondo in cui la giuria è composta da ragazzi malati di mente. Il loro rapporto con gli attori? Se questo film è riuscito, è stato per un semplice motivo: c’è stata una sensibilità, una generosità, un rispetto, una bellezza umana incredibile, con gli attori che hanno fatto di tutto per esserci, pur se incastrati tra gli altri impegni sui loro set. Per farti un esempio, ti dico solo che nella scena con Raul Bova il ragazzo con cui recitava – che anche se nel film non sembra, ha le sue grandi difficoltà – quel giorno ha avuto una crisi particolare, come a molti di loro può capitare. Io a quel punto, sapendo che Raul doveva partire subito dopo, gli ho detto che potevo chiamare subito un altro ragazzo al suo posto, e lui mi ha risposto deciso di no. ‘Non se ne parla, io aspetto che si riprenda – mi ha detto – la scena voglio farla con lui, chiamo il mio set e dico che non vado!’. Questo ti fa capire la grandezza di questi attori, anche la loro grandezza umana, impagabile: se avessi dovuto pagare non ce l’avrei mai fatta! Neanche con un budget di due milioni avrei avuto tutti loro!”
Invece speriamo che a pagare siano gli spettatori, se il 7, l’8 e il 9 ottobre verranno in tanti a vedere il film. Perché i vostri incassi hanno una destinazione molto importante.
“Sì, speriamo davvero. Prego che tantissima gente lunedì martedì e mercoledì venga al cinema, perché gli incassi andranno tutti a finanziare la ricerca scientifica sullo sviluppo neuropsichico attraverso la teatro-terapia, che può dare speranza a migliaia di famiglie con ragazzi disabili… Questa ricerca è fondamentale, fa onore all’Italia intera, non al teatro patologico: non se ne deve far bello Dario D’Ambrosi, se ne deve far bella l’Italia intera, come quando Franco Basaglia fu il primo a chiudere i manicomi!”
“Non ci sarà mai nessuna scienza che potrà stabilire fino a che punto il tuo cervello reggerà”: queste sue parole, da anni scritte sul muro del Teatro Patologico, sono tra le prime ad apparire sullo schermo.
“Sì, è la frase scritta sul muro davanti al nostro teatro. Sono 40 anni che lavoro con i disabili, ne ho accompagnati 1700, e tra loro ho anche visto ragazzi che erano i più bravi al liceo. Ma non i più bravi della propria classe, proprio di tutto il liceo!… E anche persone che si sono laureate con il massimo dei voti, e a un certo punto hanno scavallato e sono andate dall’altra parte. Può accadere ad ognuno di noi, è questo che significa quella frase. Io sono molto preoccupato per le nuove generazioni, che non riescono a distinguere e a gestire le emozioni: per qualcuno di loro, infilare il coltello nella pancia di una ragazzina e fare una partita a flipper sono due cose allo stesso identico livello, è tutto piatto. La gente non ha più il senso delle emozioni, i ragazzi non conoscono il dolore: e non conoscendo il dolore, come fanno ad apprezzare la bellezza, la gioia, l’essere felice??
Quale può essere quindi una sua proposta in questo senso, mirata proprio alle nuove generazioni?
“Se manca il senso delle emozioni è anche perché l’unico luogo in cui i ragazzi le cercano è quella scatoletta di cinque centimetri per dodici, che si chiama smartphone… Io metterei il teatro come materia obbligatoria nelle scuole: perché nel teatro ci sono degli esercizi, come il guardarsi negli occhi, o descrivere gli occhi dell’altra persona… Quando tu fai un esercizio del genere, cioè descrivere ad esempio gli occhi di una ragazzina, azzurri, le sopracciglia… non ti passerà mai nella testa un giorno di prendere un coltello e infilarglielo nella pancia! Perché in quegli esercizi si impara un senso di rispetto, di riconoscenza della bellezza, ma non la bellezza fisica, bensì proprio la bellezza del rispetto tra le persone umane”.
“Non voglio essere il Ponzio Pilato della follia”: è lei stesso a dirlo in una scena con Stefania Rocca, che nel film interpreta la sua compagna.
“È proprio quel che voglio dimostrare di fronte ai responsabili mondiali delle Nazioni Unite il prossimo 3 dicembre, nella Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità: ovvero che la teatro-terapia influenza positivamente non solo le emozioni e il funzionamento cerebrale dei ragazzi disabili, ma che nel momento in cui tirano fuori il loro dolore, la loro solitudine, il loro grido di sofferenza, nello stesso momento lo riconoscono… e riconoscendolo, piano piano imparano a gestirlo. Questo ovviamente va contro a chi pensa che questi ragazzi debbano stare sempre sedati, per ‘non dare fastidio’ in casa, nel condominio, nel quartiere. Lo sappiamo tutti, quando sta bene uno di questi ragazzi, stanno bene centinaia di altre persone: il papà, la mamma, i fratelli, i nonni, il condominio e il quartiere. Se vogliamo migliorare la nostra società dobbiamo partire da loro.
Al Palazzo di Vetro dell’ONU lei parlò già il 3 dicembre del 2017: ci ricordi cosa disse in quell’occasione. E poi ancora nel film, quando ribadisce di “non voler illudere i ragazzi disabili di poter ‘guarire’, ma di voler trovare in loro quella magia, quell’energia, come fu per Alda Merini o per Van Gogh”. “Perché loro ce l’hanno dentro, mischiata col dolore,” – è sempre lei a dirlo nello stesso dialogo – “se si riuscisse a tirarla fuori, sono loro che potrebbero aiutare le persone che hanno problemi”.
“Sì, allora a New York rappresentammo con i ragazzi Medea: ‘mentre voi in tutto il mondo tenete questi ragazzi nei letti di contenzione, con le camicie di forza – dissi – noi in Italia grazie al corso universitario del Teatro Patologico in collaborazione con l’Università di Tor Vergata, gli diamo un titolo di studio universitario. E a quel punto si sono alzati tutti in piedi ad appplaudire, per mezz’ora. Il gioco che facciamo nel film, un po’ surreale, cervello contro cervello, a me ricorda molto Il Miglio verde, nello scaricare le energie che l’altro può raccogliere. Quando faccio gli esercizi coi ragazzi la sento proprio l’energia, l’elettricità che arriva da loro… è incredibile. Un giorno anche Anthony Hopkins, sul set di Titus, mi disse che aveva lavorato con i più grandi registi e attori del mondo, ma quel che gli mancava era di lavorare con i miei ragazzi, perché aveva capito che da loro poteva imparare ancora qualcosa”.
In Io sono un po’ matto. E tu? sono proprio i ragazzi disabili, infatti, che tentano di risolvere le ansie e le paure dei personaggi che si rivolgono a loro: da Claudio Santamaria in preda all’ossessione, a Raoul Bova tormentato dall’insonnia, fino a tutti gli altri, ognuno con la sua fragilità. Proprio in quello stesso prezioso scambio di energia che ci ha appena descritto il regista.
Lei a un certo punto dice anche che i ‘suoi’ ragazzi sono ‘il sale della sua vita’: che per fare tutto questo, per raggiungere questi risultati, quindi, bisogna amarli davvero.
“Sì, bisogna amarli. Io per questo ho scelto di non avere una casa, ma di vivere in una stanza, dentro il teatro”.
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