Dopo essere stato presentato in Panorama Italia ad Alice nella Città, sarà in tour al cinema dal 20 giugno distribuito da Luce Cinecittà Corpo a Corpo di Maria Iovine con Veronica Yoko Plebani, atleta della nazionale paralimpica di Triathlon.
Plebani che a 25 anni ha nel cuore un sogno: le Olimpiadi di Tokyo 2020.
Ne aveva solo 15 quando una meningite batterica l’ha trascinata per mesi in una lotta fra la vita e la morte che le ha restituito un corpo segnato per sempre. Laurenda in scienze politiche con una tesi sui diritti delle atlete. Ambasciatrice di accettazione indiscussa del corpo con migliaia di followers da Instagram alle copertine dei giornali. Posa, anche nuda, per fotografi di fama internazionale frantumando ogni canone di bellezza.
Corpo a Corpo è il ritratto di un’atleta, ma soprattutto di una giovane donna che non si è fermata di fronte ai suoi limiti. È l’emancipazione inconsapevole della femminilità che esclude il giudizio, che non conosce normalità o diversità. È una storia interrotta ancora una volta. A 15 anni è arrivato un batterio a guastare i piani di Veronica. A un passo dalle Paralimpiadi di Tokyo 2020, al quarto posto tra tutte le atlete al mondo nella sua specialità, è sopraggiunto un virus. Ma lei ha un piano per reagire.
“La prima volta che ho incontrato Veronica, mentre assistevo a uno dei suoi allenamenti – dice la regista parlando della sua protagonista – si è fermata con il fiato corto e il viso arrossato dalla fatica e mi ha detto “Dimmi che non racconteremo solo di tempi, sudore e qualificazioni. E promettimi che non staremo ancora a rivangare una malattia che non è stato che un attimo in tutti gli anni della mia vita”. Dopo queste parole ero sicura, volevo fare un documentario su di lei, volevo raccontare la piccola Yoko, che a soli 25 anni (22 quando ci siamo incontrate la prima volta), ha molto da dire a tantissime donne, anche a quelle che non hanno mai messo piede in una palestra”.
Ma Iovine cercava un ritratto umano: “La meningite, la terapia intensiva, l’essersi dovuta confrontare con l’idea della morte non mi interessavano – continua – Io volevo scoprire, e far scoprire a chi avrebbe visto il film, chi è Veronica oggi, andando oltre la narrazione eroica della sopravvissuta, andando oltre l’immaginario dell’atleta che con il sudore, la fatica e l’impegno arriva al suo traguardo. Siamo in un momento storico in cui la narrazione del femminile sta vivendo una forte rivincita. Ad un certo punto ci siamo accorti che metà della popolazione è stata cancellata dalla storia e abbiamo preso a raccontare le storie delle donne, soprattutto delle donne forti, quelle che hanno avuto il coraggio di ribellarsi lasciando un’impronta nel mondo. Veronica è sicuramente una di queste, ma io avevo bisogno di fare un passo avanti nello sguardo con cui stavo scrutando la sua vita e mi approcciavo a raccontarla. La sua rivoluzione non è nelle medaglie, nelle ore estenuanti di allenamento, nella fatica e nel dolore, la sua rivoluzione è proprio nella sua normalità. Ed era questa normalità che mi affascinava, era proprio questa che volevo raccontare. Veronica ha vissuto un anno preolimpico, diventati due anni pre‐olimpici, che avrebbero messo alla prova la tenuta mentale e fisica di ciascuno di noi. Lei, invece, un passo dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, è andata avanti per la sua strada, conoscendo di volta in volta il proprio limite, il nuovo confine e andando oltre. La sua ostinata positività era disarmante, ma lei è così: guarda dritto negli occhi l’ostacolo e prosegue, quasi come se facesse finta di non averlo visto. Questo suo approccio alla vita è diventato il passo del film.
Non ho le dita? Posso suonare comunque il piano.
La mia pelle non è perfetta? Guardatemi! E guardatemi nuda! A un anno dalle Olimpiadi i medici mi dicono che non posso più correre? Nove anni fa mi avevano detto che non avrei mai più camminato, troverò un modo.
E nel frattempo? Nel frattempo questa ragazza normale si allena, prova a fare degli esami per i quali non ha studiato, va a ballare in discoteca anche quando non dovrebbe, si arena nell’immobilità di una pandemia che ha messo alla prova anche la sua motivazione.
Corpo a Corpo è questo. È il ritratto di un’atleta e di una giovane donna. Le cicatrici, le amputazioni, le protesi non sono un limite, ma l’estensione di una vita. Vedere un corpo come il suo che riesce ad allenarsi, a sopportare la fatica, a raggiungere giorno dopo giorno un obiettivo sempre più lontano è normale e allo stesso strabiliante quanto vedere una ragazza di 25 anni che esibisce il suo corpo imperfetto senza alcuna paura. Oggi si parla molto di body confidence, ma la verità è che viviamo nell’epoca di Instagram in cui quelle stesse ragazzine che mettono like alle smagliature fieramente esibite da un’influencer, prima di pubblicare una loro foto, provano tutti i filtri a disposizione per nascondere le imperfezioni”.
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