Tokyo, febbraio 1997. Una serie di omicidi inspiegabili scuote la metropoli: le vittime presentano profonde incisioni a forma di X all’altezza del collo, e gli assassini—persone comuni, senza alcun movente apparente—non sanno spiegare il proprio gesto. La città è in preda al terrore, mentre il mistero si infittisce.
A occuparsi del caso è Takabe, un detective inflessibile e determinato, ma segnato da una vita privata tormentata: la malattia mentale della moglie lo consuma lentamente, logorandone il controllo sulla propria stessa esistenza. Affiancato dallo psichiatra Sakuma, Takabe inizia a scoprire un inquietante filo conduttore tra i delitti: un enigmatico giovane di nome Mamiya, un vagabondo privo di memoria che sembra aggirarsi per la città come un’ombra.
Più Takabe indaga, più cresce in lui un’ossessione: Mamiya non è un semplice testimone, ma potrebbe essere l’artefice occulto dietro la scia di sangue che attraversa Tokyo. Attraverso oscuri poteri di ipnosi e magnetismo, sembra in grado di insinuarsi nella mente delle persone, trasformandole in inconsapevoli strumenti di morte.
Ma mentre la verità inizia a emergere, Takabe si rende conto che il pericolo non riguarda solo i criminali… bensì anche lui stesso.
Finalmente nelle sale italiane Cure, il capolavoro del 1997 del maestro Kiyoshi Kurosawa, ritenuto uno degli horror psicologici più influenti degli ultimi trent’anni, disponibile in versione restaurata 4K originale sottotitolata e anche doppiata per la prima volta in una lingua diversa dal giapponese.
Il film, distribuito da Double Line, sarà nelle sale dal 3 aprile.
Nel film accade spesso di vedere personaggi e oggetti che cadono senza significato apparente. Un mondo vittima della forza di gravità…
“Non so bene il perché – commenta Kurosawa- ma le cose che si muovono lateralmente o le inquadrature orizzontali mi danno una sensazione piacevole, mentre trovo che i movimenti verticali suscitino paura. C’è qualcosa che differisce completamente da quelli orizzontali: forza, stupore, un senso di innaturalezza. Se nella storia compare un fantasma o una persona muore, mi viene voglia di esprimere tale innaturalezza con un movimento verticale”.
Normalmente si usa realizzare le scene di omicidio ricorrendo al montaggio per donare suspense alla scena, invece Kurosawa le racchiude in ampi long take, con un’atmosfera “normale”, rendendo più straniante l’assassinio.
“L’omicidio – spiega il regista – è la più violenta delle relazioni umane rappresentate al cinema, e anche una delle più frequenti, ma non penso che debba essere rappresentato in maniera particolare. Voglio riprendere allo stesso modo sia le scene di vita quotidiana che gli omicidi. Non mi piace usare un certo tipo di montaggio solamente in occasione della morte di una morte improvvisa: penso che, anche per questo tipo di situazione, il tempo dovrebbe scorrere allo stesso modo. La suspense è quel sentimento che ti fa trepidare pensando: “Quando verrà ucciso?” In altre parole, l’obbiettivo della presenza che minaccia è uccidere. D’altra parte, nell’horror la suspense è quel sentimento di inquietudine che provi pensando: “Quando salterà fuori il cadavere?” Chi salta fuori è proprio il morto, e non si riesce neanche a immaginare quale sia il suo obbiettivo. Questa differenza è determinante. Negli ultimi anni mi sono dedicato all’horror e credo che in questo genere di film la suspense sia qualcosa di molto diverso da ciò che intendeva Hitchcock”.
E’ un uso particolare della detective story e del cinema horror, nel quale spesso il genere si fa campo di interrogativi esistenziali e filosofici.
“Quando giro un film – dice ancora l’autore – per me il genere rappresenta “la distanza che posso prendere da un film di Hollywood”. I film che faccio io sono sempre, e non potrebbe essere altrimenti, film giapponesi. Quindi li giro come film giapponesi. Come Ozu, o come Mizoguchi, o magari come Ōshima. Eppure in qualche modo si finisce per voler inserire un colpo di scena nei primi cinque minuti, o magari aumentare la suspense mostrando il protagonista in fuga, o ancora far piangere gli spettatori. E tutte queste cose dove le troviamo se non nei film hollywoodiani? Se si vuole realizzare un film esclusivamente giapponese è impossibile inserire questi aspetti, ma non c’è niente di male nel farlo, perché questo non è altro che l’intrattenimento come lo si intende oggi. Quindi per me non è una cosa negativa dir che si tratta di film commerciali. E non è affatto impossibile inserire in questo stile che nasce da Hollywood interrogativi esistenziali o filosofici. Gli horror mi sono sempre piaciuti – conclude – Però, e questo vale anche per i roman porno, si tratta di un genere molto discriminato e molte persone non li vogliono vedere a priori. Quindi non dovrebbe capitare spesso che un produttore chieda a un regista di realizzare un film horror. Quando ho girato Pulse, credevo che sarebbe stato il mio ultimo horror, e invece non è stato così. Non credevo che ci sarebbe stato il boom del J-Horror e invece è successo”.
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