Dopo quasi 15 anni dalla pubblicazione, Piccoli crimini coniugali, commedia nera e psicanalitica sulla querelle di coppia, scritta da Eric-Emmanuel Schmitt, tra gli autori più rappresentati nei teatri contemporanei e non nuovo ad adattamenti cinematografici (Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, 2003 e Lezioni di felicità, 2006), approda sul grande schermo diretto da Alex Infascelli (ultimo film S Is For Stanley, 2015), che firma la sceneggiatura con Francesca Manieri.
Il film potrebbe ricordare Polański – Carnage anzitutto, e forse amcje Venere in pelliccia – ma anche il Jack Torrance di Shining e, come dice lo stesso Infascelli, “allora, anche Misery di Stephen King”. Eppure, senza tirare in causa troppi altri autori, probabilmente metabolizzati dal regista e dunque naturalmente presenti in qualche modo nel film, basta fermarsi a Schmitt e allo scritto originale per avere qualche dubbio sulla messa in scena che delude il lettore del testo della pièce francese, un gioiellino di metaforici coltelli sapientemente affilati, che scivolano pericolosi, irriverenti, ficcanti, malinconici, nella dinamica di coppia. Lo spunto è l’apparente perdita di memoria del protagonista, qui un efficace Sergio Castellitto, sia nelle sequenze iniziali di desolazione e galleggiamento in un contesto apparentemente estraneo, sia in quelle successive, in cui l’ego e la franchezza, la possibilità di dire in faccia le cose e, al tempo stesso, di giocare con l’ambiguità che la memoria latitante consente, permettono all’attore di essere a fuoco nelle sfumature del personaggio.
Coprotagonista, insieme a Castellitto e Margherita Buy, nel ruolo della moglie patologicamente innamorata e potenzialmente carnefice, è la musica, anche nella perenne, e forse eccessiva, forma del silenzio: la colonna sonora è firmata da David Nerattini con il regista, che spiega: “le musiche dei tamburi sono la guerra, il patibolo quotidiano, il bisogno di qualcosa di disarmonico. Da qui la scelta delle percussioni, metafora del battito del cuore, delle porte che sbattono, del fruscio di un tessuto”, con riferimento esplicito all’incalzante colonna d’apertura del film, un’eco di memoria tribale.
Piccoli crimini coniugali è il titolo di un libro di cui il personaggio di Castellitto è autore, in quanto scrittore di gialli, e “dipinge la coppia come un’associazione di assassini … I due nemici (moglie e marito) giustificano tutto in nome della famiglia, alibi supremo”, secondo le parole del protagonista nel film. Un’opera, quella originale, amatissima dal pubblico e spunto di appassionato dibattito per lettori e spettatori, che Infascelli spiega come “un’occasione ghiottissima. Sono pochi i testi che raccontano la coppia in modo così teatrale: in ogni relazione amorosa reale si mette in scena una rappresentazione teatrale. Leggendo Schmitt ho capito di essermi innamorato del modo di vedere la coppia, in un momento personale in cui la coppia era per me il centro. Con Francesca Manieri, narrativamente, ci siamo detti subito di mettere i piedi nel testo di Schmitt e così abbiamo fatto”. La coppia messa in scena da Infascelli racconta così l’esperienza: per Margherita Buy, il suo “è un personaggio molto complesso, un insieme di donne, una figura particolare. La sceneggiatura ha avvicinato molto il mio personaggio ad una figura più attuale di quella del testo francese”.
Per Castellitto, il film rappresenta “l’amore ai tempi del rancore, del rimpianto. Noi siamo stati gli attori giusti perché non abbiamo rinunciato al gelo, ma nemmeno un po’ all’umano disgelo. È un thriller coniugale, un gioco di rimbalzi, di atteggiamenti ancestrali tra maschile e femminile. Sono due reduci del loro stesso amore, in una casa mausoleo, una tomba dell’amore, in cui forse non c’è un esterno”. E, a proposito dello spazio d’ambientazione, inizialmente pensato in teatro, ma poi, per conto economico e necessità narrativa, approdato ad una casa (che fu, realmente, di Silvana Mangano), unico ambiente d’azione del film, a parte un breve esterno iniziale, non si può che riconoscere un fine mestiere di costruzione della scenografia (Marina Pinzuti Ansolini) – complice la fotografia di Arnaldo Catinari – capace di architettare un ambiente iper-estetizzato, che in qualche sequenza diviene particolarmente complice della regia, come nella scena del pasto, dove Castellitto a capotavola dinnanzi da un pezzo di formaggio, riflette perfettamente, creando un suo alter ego, nella superficie del tavolo, gioco di sdoppiamento ripetuto anche nella scena del bagno, subito dopo che lui assiste alla provocatoria minzione della moglie; queste sono alcune metafore del racconto visivo, insieme all’altra, palese e simbolica, ovvero la scala a spirale dell’interno del condominio, inizialmente pensata come scena dell’incidente. Sulla perfezione dei suoi interpreti, Infascelli dice che “sono stati un’università, compressa in 14 giorni (quelli di set). Di Margherita conosciamo il suo essere una foglia al vento, e invece è una roccia. Sergio, che pare un maschio alfa, è invece tenero. Mi hanno aiutato a dirigere il film, facendomi capire come si fa a dirigere un attore”. Di un film che, seppur con passo lento e sommariamente centrato rispetto all’opera di Schmitt, fa però lo sforzo di proporre una trama non omologata, Castellitto constata che “in un cinema italiano di film comici deprimenti, fare un film sul dramma della relazione umana è coraggioso”.
Il film, prodotto da Marco e Nicola De Angelis, viene distribuito da Koch Media, in circa 100 copie.
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