È un colorato e colorito parroco (Taika Waititi, anche regista, co-sceneggiatore e co-produttore), un santone multicolor all’apparenza, a portar dentro a questa favola contemporanea, quanto reale, perché vera – racconta di una storia vera -, che di favoloso ha l’essenza edificante, l’ironia palpabile e la capacità di commuovere, anche chi di calcio non capisce nulla, né ha un interesse tematico specifico, anche perché il calcio, in sé, qui è secondario rispetto all’essenza del sentire umano.
“Sei sempre alla ricerca di ispirazione, ma in questo caso era già tutto lì”, dichiara di questa storia Waititi (già autore di Jojo Rabbit, Thor: Ragnarok).
È la storia di un popolo, quello delle Samoa Americane (arcipelago dell’Oceania), pervaso da uno spirito lieve e da una spiritualità sentita, un dialogo diretto con un Dio a cui ci si rivolge come in dialogo con un famigliare ma al contempo non vivendola come un oppio che limita l’apertura alle cose del mondo, anzi: questo si dimostra sia nell’accettazione spontanea, senza narrazioni, senza necessità di motivare il convincimento, del personaggio di Jaiyah (Kaimana), calciatrice transgender, e in quello di Thomas Rongen (Michael Fassbender), che “è come Matrix, questo uomo è il nostro Neo”, così – definisce l’allenatore – il presidente Tavita (Oscar Kightley), vertice della squadra di calcio più perdente al mondo, non un superlativo negativo dall’escamotage comico, ma la più stretta verità dei fatti.
È, dunque, anche la storia di Thomas, sì allenatore esonerato per la sua recente vis nervosa e il poco autocontrollo ma con l’unica opzione di volare in quell’isola del Pacifico per continuare a fare il suo mestiere; ma è soprattutto la storia di Thomas-uomo, che Taika Waititi consegna gradualmente all’empatia dello spettatore, puntando – e vincendo – sull’interpretazione di un quasi imprevedibile Fassbender, non perché si abbia dubbio sulla sua versatilità interpretativa, ma per una particolare abilità a bilanciare con sapienza l’articolato spettro emotivo dell’essere umano, qui una gamma che va dall’intimo dolore profondo alla messa in discussione del proprio talento, dalla rabbia all’impotenza, dall’aggressività all’accettazione. Come dice il colorato parroco, “è una storia di sventura”.
Per Fassbender, Waititi, “ha una comprensione dell’idea di outsider e la abbraccia. Taika è un talento molto speciale. Quando crei storie umane e vuoi davvero portare qualcuno in un viaggio emotivo, la risata è sempre lo strumento migliore. Ha una comprensione di questo e delle persone, e ama ciò che fa”.
Non c’è riscatto, la squadra, da sempre, seppur parte del Campionato, non è mai riuscita a segnare un goal nella sua storia e adesso il conto alla rovescia sono le qualificazioni alla Coppa del Mondo, per cui l’unica speranza è riposta in un “palai”, un uomo bianco, biondissimo e occhi azzurrissimi, una sorta di alieno questo coach che giunge da “fuori dall’isola”.
31 a 0 è il risultato storico di Australia contro Samoa Americane, correva l’anno 2001: è questo l’apice di questa storia calcistica ma, né prima, né dopo, è mai stato più brillante, almeno fino all’arrivo di Rongen, tra la maschera della superbia e un’ironia di sopravvivenza, afferma: “non sono Dio, ma potrei anche esserlo, perché faccio più miracoli di lui”.
La squadra, composta da elementi senza talento, ma anche da potenziali atleti, dapprima è allenata da un tenero omone, Ace (David Fane), che possiede l’autorevolezza di una bimba in tutù ed è di certo estraneo alla materia calcistica, nonché privo del polso necessario a tenere le fila di possenti maschi, che si barcamenano tra il testosterone il sovrappeso: la squadra è una comunità di esseri umani, dapprima, lontanissima dall’alfa-machismo del calcio occidentale e dalle logiche economiche dello stesso, è anzi un illuminato esempio di inclusione, quella di Jaiyah (John “Johnny” Saelua, all’anagrafe) – una “fafafina”, un fiore della società, come spiegano a Thomas – che poi – nella vita reale, è attualmente la prima giocatrice transgender a praticare in un torneo sancito dalla FIFA; un’ambasciatrice della Federazione stessa per l’uguaglianza e gli atleti LGBT.
“L’umorismo è il modo più semplice per abbattere i muri delle persone”, afferma l’attrice Kaimana. “Inizi a ridere e i muri cadono e questo apre la porta alla connessione. Si diffonde molto”, aggiunge Kightley, per cui “nella nostra cultura, quando prendi in giro qualcuno, significa che ti piace davvero”.
Insomma, Thomas, porta – o almeno tenta – “atletica e disciplina”, che paragona all’armonia necessaria tra “cacio e pepe”: sono gli ingredienti necessari a mettere in campo una squadra dignitosa ma, certo, trovandosi catapultato in una realtà per lui naïf, in una casa dal gusto kitsch, in “questo posto, un carnevale di merda”, come lo definisce lui stesso.
L’istinto a mollare spinge e Thomas lo fa, due volte, senza preavviso, d’istinto, ancora non gestendo la rabbia: è comprensibile la rassegnazione nel trovarsi davanti una squadra senza speranza, anche se – in fondo – è il primo a credere in una possibilità, nella possibilità della felicità, cosa che, a livello strettamente umano, impara a capire, pian piano, anche su se stesso. È dapprima Jaiyah a incontrare una ruvidità necessaria al fiorire della bellezza del rapporto, umano e professionale, tanto che l’allenatore le riconosce di essere colei che ispira la squadra, e non lui – come dovrebbe; è poi anche il Presidente, uomo dall’invidiabile serenità, a stabilire con Rongen l’empatia capace a fargli davvero credere che – nel calcio, come nella vita – esista davvero “un secondo tempo”, un’altra possibilità.
Thomas, competitivo nello spirito, quanto dilaniato nell’anima – per un lacerante lutto personale, poi ammetterà – decide di giocare quella partita, quella determinante per la sopravvivenza della squadra – con Tonga, per le qualificazioni alla Coppa del Mondo dell’Oceania Football Confederation (OFC) – ma altrettanto poi di giocare la sua esistenza, allentando le briglie della sua gabbia emotiva, così affermando che “la vita è corta, il calcio è un gioco: siate felici”.
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