IL RITRATTO


Ho avuto parecchie occasioni di frequentare Alberto Sordi, ma non per motivi di lavoro. Ci vedevamo spesso a cena da De Sica, lui per motivi di amicizia, io perché avevo sposato Lucia Rissone, che, essendo figlia di Checco e nipote di Giuditta, veniva a essere nipote acquisita di Vittorio. Erano serate divertenti, ve lo potete immaginare, durante le quali – oltretutto – il discorso raramente cadeva sul cinema. Se bene ricordo, l’unica volta che accadde, fu durante una trasmissione di “Lascia o raddoppia” nel corso della quale, a una domanda, relativa a non so che film, ebbi la insana idea di dare la risposta giusta, visto che le concorrente taceva imbarazzata. Al che Sordi, per farmi uno scherzo, si precipita al telefono, chiedendo alla RAI, d’iscrivermi al concorso. A conti fatti, l’unica- volta che ebbi un incontro specifico con lui per motivi professionali, fu durante la lavorazione di Un borghese piccolo piccolo. Cosa che non facevo mai, per la divisione di compiti che in un quotidiano contraddistingue il cronista dal critico, andai sul set a intervistare Monicelli e Sordi, letteralmente costrettovi dalla irruenza di Anna Maria Tatò, la futura compagna di Mastroianni, che curava l’ufficio-stampa del film. Mi colpì in quella circostanza, la diversa, quasi opposta, interpretazione che il regista e l’attore davano della vicenda contenuta nel bel romanzo di Vincenzo Cerami. Mentre Monicelli cercava di storicizzare (e schematizzare) la situazione (Giovanni Vivaldi, il “borghese piccolo piccolo” doveva svelare una ferocia atavica, una predisposizione a uccidere, un’assenza di carità cristiana, che la sua classe normalmente riesce a celare, a meno che gli eventi non la costringano a rendere esplicite). Sordi dava una versione più umana (ma anche più ambigua e sottile) del personaggio affidatogli: vittima e assassino finivano, secondo lui, per confondersi agli occhi del padre. Ricorderete la trama: il figlio di Vivaldi rimaneva incidentalmente ucciso durante uno scontro a fuoco tra la polizia e rapinatori in fuga; Vivaldi riconosceva il colpevole; ma, invece di indicarlo alla polizia, preferiva pedinarlo, stordirlo con un colpo di cric, trascinarlo in una capanna lacustre di sua proprietà, facendogli fare una orribile agonia. “Quando il suo prigioniero muore, Vivaldi scoppia in singhiozzi”, mi aveva detto Sordi, “forse l’assassino stava per occupare in lui il posto reso vacante dal figlio.”
Un borghese piccolo piccolo Confesso che a quel punto immaginai un tiro alla fune tra il regista e l’attore che certamente non avrebbe giovato al film. Non avevo considerato però lo stupendo lavoro di squadra che si era creato da un pezzo nell’ambito della commedia di costume, ragione per cui, alla visione del film ultimato, se era vero che, alla fine, la gara di tiro alla fune, l’aveva vinta Monicelli, era altrettanto vero che Sordi, nell’interpretare il personaggio di Vivaldi, era riuscito a imporre la propria opinione, senza entrare in conflitto con la tesi portante del film, ma – al contrario – arricchendola di un valore in più.
Un borghese piccolo piccolo fu il canto del cigno della commedia, di costume, detto, anche “commedia, all’italiana”, che era stata ufficialmente introdotta nel 1958 dallo stesso Monicelli con I soliti ignoti. Infatti, più che una commedia, a ripensarci era un film horror. Erano gli anni del terrorismo, c’era poco da ridere nel rispecchiare la società. Del resto non si erano attesi gli anni di piombo per rimproverare alla “commedia all’italiana” di essere uno specchio troppo compiacente dei nostri vizi e difetti. “Vi meritate l’Italia di Alberto Sordi”, avrebbe urlato Nanni Moretti in una scena di Ecce Bombo, pochi mesi dopo l’uscita di Un borghese piccolo piccolo. Talché Nanni che andava in bestia ogniqualvolta qualche critico o cronista sprovveduto lo indicava come l’erede della commedia all’italiana, fu guardato come il nemico giurato di Sordi. E, alla resa dei conti, anche Sordi ne fu convinto, quando la giuria del Premio Rizzoli, di cui egli faceva parte, si sentì gratificare con un plateale “Stronzi!” da parte dello stesso Moretti, inferocito dal fatto che Io sono un autarchico, la sua opera prima era stata preferita quella di Giorgio Ferrara, Un cuore semplice, da Flaubert. Idealmente penso che i destini di Moretti e di Sordi si sono reincrociati negli anni ’90, quando a poca distanza l’uno dall’altro uscirono Caro diario e Nestore, l’ultima corsa. Nel primo Moretti percorreva Roma in vespa; nel secondo Sordi guidava la carrozzella. Due passeggiate romane diverse in tutto, nell’itinerario e nel modo di filmarlo, ma altrettanto valide. Purtroppo i meriti di quella di Sordi non vennero riconosciuti. E’ il destino degli attori che si sono identificati in un personaggio rappresentativo, solo in quello. Prima o poi gli spettatori se ne stancano, indipendentemente dal valore di chi lo interpreta. E’ successo a Tognazzi, a Manfredi, anche a Sordi, che sul suo personaggio definito senza mezzi termini “l’italiano” era riuscito a costruire un vero e proprio serial televisivo, messo insieme con gli spezzoni dei suoi innumerevoli film. Del resto Sordi ne era conscio da tempo. “Questo segna anche i limiti delle mie possibilità”, aveva confessato in una vecchia intervista. La sua, grande lucidità gli ha consentito di non cadere in depressione, come invece è accaduto a tanti suoi esimi colleghi. Sordi rappresenta la grandezza che talvolta va attribuita all’attore imperfetto.

25 Febbraio 2003

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