Nemo Bandera (Claudia Amendola) è un padre. È un uomo d’affari. È un narcotrafficante. È Il patriarca. Il mare è il suo “ventre natale”, l’essenza dell’essere umano ma anche il nucleo di tutta la sua ricchezza. Eppure, la ricchezza, nulla può contro la malattia, soprattutto se la stessa è un disturbo della mente come l’alzheimer, diagnosticata all’uomo il giorno del suo 60° compleanno.
Stesso giorno della grande festa nella sontuosa villa di Levante, luogo natale: la sua famiglia di sangue intorno, i figli Nina (Giulia Schiavo) e Carlo (Carmine Bruschini), insieme alla moglie Serena (Antonia Liskova); così come la famiglia non di sangue, quella del compare Ferro (Michele De Virgilio) e dell’avvocato Mario (Raniero Monaco di Lapio), figlioccio di Bandera, “scontato” erede del gruppo Deep Sea, azienda industriale nel campo ittico, ma… “la successione è una questione di sangue, e voi siete sangue del mio sangue” dice Nemo ai propri figli, “di sangue” appunto, aprendo così una crepa nell’equilibrio dello status di egemonia che lo stesso esercita a governo delle cose della vita.
Claudio Amendola – interprete e regista della serie, in 6 puntate, su Canale 5 dal 14 aprile – è inoltre padre di Lara (Neva Leoni), questione spinosa per l’uomo, come per la giovane donna, dedita ad accudire Ada, la madre, in coma.
Claudio, torna alla regia di una serie, dopo l’esperienza di Nero a metà. Quali corde del suo senso della regia sente che la serialità le permetta? Quali tratti di originalità registica – artistica come tecnica – ha potuto imprimere perché si riconosca un suo marchio di fabbrica?
Io parto sempre da un concetto: aver sempre chiaro a chi tu ti stia rivolgendo. E credo che quando si fa la televisione generalista si debba avere molto rispetto per chi guarda. Poi, se uno invece fa una serie un po’ di nicchia, su una piattaforma, rivolta a un pubblico molto specifico, magari giovane, dinamico, abituato a guardare sul telefonino, allora si permette altre cose. Così come anche in Nero a metà, per Il patriarca io non ho voluto dare un’impronta che marchiasse il prodotto di una mia peculiarità, sono io che mi devo mettere a disposizione della sceneggiatura, e soprattutto delle persone che guardano. Se faccio un progetto per Canale 5 so che devo accompagnare il pubblico affinché quello che guardano sia fruibile mentre… stanno cenando, perché è così che ci guardano per ¾ di serie, e quindi devi essere molto semplice cercando però di dare quell’emotività che la scena richiede.
Il patriarca è un adattamento dalla serie spagnola Vivere senza permesso, tra gli sceneggiatori italiani il giallista Sandro Dazieri: lei si è relazionato a questo pregresso?
Senza nulla togliere e senza fare paragoni, il prodotto spagnolo è molto più simile alla loro tradizione della soap opera, piuttosto che a quella della fiction: nella loro ci sono pochi ambienti, nella nostra sono moltissimi. L’abbiamo visto, ovviamente, ma l’abbiamo poi adattato a come noi facciamo la fiction, quindi non regolandoci sul passato.
Il patriarca, al di là del titolo, è concetto che porta con sé senso del potere e senso della paternità. Questo suo patriarca è uomo di potere, d’amore, di ambizione e di vendetta. Possono essere sentimenti dalla sfumatura positiva, come negativa. Lei, che personale rapporto ha con questi quattro temi?
Col potere nessuno, se non il riconoscere quello bello che hai quando sei un regista e gestisci la giornata e il lavoro degli altri, avendo cognizione di causa un po’ per tutti. Per l’amore, chi potrebbe non aver vissuto l’amore nella propria vita, non solo per i figli e le compagne, le mogli o i mariti, ma anche per un animale, o per una passione? L’ambizione ce l’ho avuta forse un po’ all’inizio, poi è andata talmente bene che non mi serviva più, quindi non ce l’ho. La vendetta non mi piace: forse a volte può essere che uno ceda a un sentimento del genere, però non sono vendicativo, ma… me la lego al dito, questo sì.
L’alzheimer chiama in causa la mente: Nemo fa promettere a Ferro che: ‘Quando non ricorderò più il nome dei miei figli, mi dovrai sparare un colpo in testa’. È evidente quale sia la sua concezione della malattia: mentre la sua personale, Claudio? Anche pensando al tempo che passa, che potenzialmente può avvicinare a questo disturbo.
Ho capito che uno si può fare tantissime idee sull’argomento, ma finché non ce l’hai, finché non ti ci trovi davanti… questo immagino che costringa a rivedere… . Io ne ho paura, della malattia, e se prima non ci ho mai pensato, da qualche anno sì: non in particolare dell’alzheimer ma al fatto di potersi ammalare sì, e non solo perché ho avuto un episodio personale che mi ha costretto a rapportarmici, ma perché col passare degli anni è ovvio cambiare approccio. Allo stesso tempo, però, ti guardi, nei sessant’anni di oggi, e ricordi quando ne avevi venti e i sessantenni erano diversi da me… per come ci si approccia, ci si abbiglia: è molto cambiata questa età e siamo per fortuna curabili, pieni di controlli e medicine, dopoché la malattia degenerativa è qualcosa che – capito anche studiando e parlando con le associazioni – a un certo punto per il malato diventa meno grave, mentre la tortura è per i famigliari, e in questo senso un Paese civile si giudica su quanto aiuto e sostegno metta in campo per chi è toccato da questo tipo di malattia.
Nella serie ci sono luoghi simbolici, così come nomi, propri o di ambientazioni. Il mare, quello di Levante, quanto – al di là della connessione col mestiere di Nemo – per la regia e l’emotività visiva ha contato?
Nemo nasce marinaio, pescatore, uomo di mare, di barche e di salsedine. C’è una battuta di Lara che dice: ‘ …all’inizio è stato un buon padre, mi ricordo odorava di reti da pesca’, perciò il mare è sempre quel piccolo ignoto, che da una parte è libertà, dall’altra è mistero. Sicuramente c’è in Nemo, come in Ferro, la tradizione dell’uomo di mare, sempre pronto a salpare, con lo sguardo verso orizzonti nuovi, per lui oscuri certo, per la scelta di vita. Dal mare ha tirato fuori la sua ricchezza, sia quella pulita che quella sporca. E quando tu hai la possibilità di inquadrarlo, il mare è una scenografia naturale che ti aiuta tantissimo: quel mare della Puglia ha dei colori, delle tonalità meravigliose, e per ogni scena s’è cercato sempre di mettere un pezzo di mare, è importantissimo, specialmente quando fuori stagione.
E i nomi: Nemo, Ferro, Levante?
Molti li abbiamo mantenuti dall’originale: Nemo è anche nella versione spagnola, ci è molto piaciuto, ovviamente col concetto del ‘nessuno’ in sé; e anche Ferro è ereditato, m’è piaciuto immediatamente per l’essere deciso, d’altronde ho chiamato mio figlio Rocco… . Levante è farina del sacco degli autori: volendo dare un nome immaginario, questo è evocativo, soprattutto nella differenza sostanziale tra il levante e il ponente.
Ancora come in Nero a metà, anche ne Il patriarca ha intorno un coro di attori di nuova generazione: cosa le piace del lavorare con loro?
Da parte loro, come ovvio, c’è una grande emozione, che però si tramuta immediatamente in amicizia: io mi riconosco molto generoso con i colleghi, perché ne conosco le fragilità, le doti anche, però ognuno va preso da un lato diverso e va capita immediatamente quale sia la chiave giusta; solitamente è quella di farli sentire a proprio agio, di dargli la possibilità di sbagliare, di ridere sulle emozioni, e di farti sentire collega, complice. C’è un’altra cosa importantissima, per un attore: lavorare con un attore in forma è meglio, fa sentire meglio: se lavori con uno bravo sei più bravo; è un lavoro di coppia o di terzetto, infatti se con Max Tortora e Antonello Fassari non avessimo trovato i tempi e l’alchimia di alzare la palla e schiacciare a turno, non sarebbe stata quel piccolo capolavoro che è stata la bottiglieria de I Cesaroni. Molti registi, secondo me, gli attori non li amano, anzi: c’è una sorta di compiacimento nel trattarli mali, io ho visto attori trattati veramente male e andare completamente nel pallone, non riuscire per un giorno o due a riprendere serenità. Non importa poi lo scusarsi, perché se mi prendi a parolacce davanti a tutti io sto male, non puoi sapere le mie fragilità, e molti registi è invece cosa che fanno, tronfi e con soddisfazione; anche per questo ormai ‘mi faccio’ da regista.
Infatti, sta seguendo di più questa direzione dietro la macchina da presa?
No, ma per le fiction, se le produzioni sono d’accordo, se il mio lavoro soddisfa, io preferisco anche auto dirigermi, anche perché gestisco il tempo, perché non si può vivere solo per lavorare, e quindi magari fare tutti i giorni straordinari perché per il regista ogni inquadratura è la più importante della vita: anche no.
Per Camilla Nesbitt, autrice del soggetto di serie e produttrice per Camfilm: “Il Patriarca è una serie che porta sullo schermo dei personaggi e delle storie molto coinvolgenti, giocate su grandi temi universali come la ricerca del potere, i compromessi che questo spesso richiede per essere mantenuto e allo stesso tempo la forza dei legami familiari e dell’amore, capaci di sconvolgere la vita e di portare a decisioni estreme. Sono certa che Il Patriarca, diretta e interpretata da un grande Claudio Amendola, che torna dopo alcuni anni sugli schermi di Canale 5, affiancato da un cast di grande valore, saprà offrire agli spettatori sei serate ricche di emozioni”.
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