La pomposa baronessa – zia Iole (Nunzia Schiano), tutta velluti, turbanti e preziose chincaglierie, perfida col nipotino Sasà (Sergio Assisi), non vede l’ora di auguragli “buon compleanno”: l’erede dei Belladonna, orfano di padre, compie infatti 50 anni, ricorrenza che porta con sé il divenire della storia, Il mio regno per una farfalla, sceneggiatura e regia di Sergio Assisi, che torna dietro la macchina da presa dopo quasi 10 anni. “Come follia, Sergio e io siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Il mio personaggio è una cattiva da cartoon, credibile nonostante il suo eccesso”, commenta la nobile parente.
Sasà, in attesa da una vita di ricevere l’eredità, vive da sempre nella suite dell’albergo di famiglia – questo ha lasciato indicato nel testamento il padre, barone: la stanza è la numero 31 per la precisione, che nella Smorfia rappresenta “’o patrone ‘e casa”.
Sulle note che risuonano “voglio vivere così, col sole in fronte” entra in scena – quasi a mo’ di musical – proprio Sasà, viveur dall’affabilità ironica e dal fascino birichino, non uno scavezzacollo, ma di certo uno che spezza cuori con grande facilità, nonostante sia ufficialmente fidanzato con Sabrina (Anna Tancredi), fanciulla romantica e sconsolata dal compagno Dongiovanni, sembrerebbe… affiancata dalla mamma – Barbara Foria, la “Crudelia Demon” della vicenda, con la di lei amica, o meglio “complice”, Tosca D’Acquino, direttrice dell’hotel. Per il suo personaggio, l’attrice de Il ciclone spiega che “Sergio s’è un po’ ispirato alla mitologia e io mi sono ispirata alle erinni; ho pensando a una Medea; inoltre, Ischia è l’isola del mio cuore, meravigliosa per un ruolo anche un po’ catartico: è stato esilarante essere cattiva fino alla fine, in coppia con Barbara”. E proprio Foria ringrazia “Sergio perché facendo io la comica è la prima volta che un regista brillante mi abbia permesso di fare un ruolo così cattivo. Sergio ha saputo carpire la mia sfumatura di cattiveria: di lui ho amato la generosità di regista, le idee ben chiare applicate con meticolosità”.
Nella trama, Sasà gira infatti per Ischia, isola dov’è ambientato tutto il racconto, a bordo di una mehari rosa, perennemente in compagnia del compare Peppe (Giuseppe Cantore), cavalier servente, grillo parlante, amico fedelissimo, di professione barcaiolo della L’Ov Bot: lui indossa improbabili camicie a stampe multicolore, affianco ai sartoriali completi avario del baroncino, mentre i due girano per l’isola con tanto di cannocchiale, allo scopo di avvistare turiste da “far innamorare”, finché non s’imbattono in una sirena col cappellino di paglia, Anna (Federica De Benedittis), entomologa di professione, guida turistica di necessità, eroina romantica, che porta la luce.
“L’isola è metafora ed è grande, lì c’è tutto. Ischia è anche un richiamo alla Commedia classica italiana, come Pane, amore e fantasia… Ho messo nel film tutto quello che ha contributo a creare la mia fantasia, da Troisi a Frankenstein Junior a Gigi Proietti, che avrebbe dovuto partecipare al film: nel monologo finale sulla verità, c’è Febbre da cavallo, con anche la musica che richiama quella originale. Io sono cresciuto con queste cose ed è un mio modo per ringraziare di tutto questo, e ringraziare anche mio nonno, che mi ha mostrato i film di Totò 7000 volte”, spiega Assisi.
Nello specifico delle musiche, sono del maestro Sergio Colicchio, che racconta essere stato “un lavoro imponente, cominciato sulla sceneggiatura. Poi c’è stata la creazione dei temi sui personaggi, come quello del prete: una personificazione del tema, insomma; con una serie di chicche: nel film c’è una versione personale del Requiem di Mozart. È una colonna sonora nata da ore, ore, e ore in studio con Sergio, me e il pianoforte: come sempre dovrebbe… essere; è bello suonare musica che non sia da sottofondo”.
Nella trama, con la consegna di un’inattesa VHS che passa per le grinfie della Direttrice, il colpo di scena della nonna di Sasà, una gravidanza che spariglia le carte, la vita delle lucciole e la scoperta che lì, proprio sull’Isola d’Ischia, pare viva ancora l’esemplare di Farfalla Imperatrice, la storia procede, sotto “la benedizione” di Padre Gennaro (Giobbe Covatta), prete volitivo, schietto, poco convenzionale, naturalmente complice… della vicenda, che però non manca di spartire saggezza vitale. “Questo nostro mestiere permette di fare come quando sei bambino e dici: ‘facciamo finta di…’, e questo film mi ha dato proprio questa sensazione: Padre Gennaro e io siamo molto simili, mettiamola così”, commenta l’attore, che poi approfondisce la riflessione sul genere del film, dicendo che “c’è un confine mobile tra la Commedia e la Farsa, in base ai periodi storici: la Commedia all’italiana aveva una credibilità assoluta per storia e recitazione con un confine oltre a cui non si andava; con la nuova generazione s’è spostato il confine e c’è sempre uno sconfinamento nella Farsa, con poca capacità di distinguere o scegliere dove finisca la credibilità e dove cominci la sua sospensione: quando la maschera dell’interprete è potente sta nei confini, quando è meno potente si rimpolpa con altre soluzioni… “.
E se Il mio regno per una farfalla sembra proprio ricordare Shakespeare, il gioco di parole che ha scambiato il “cavallo” originale con l’insetto non è un caso, infatti Sasà è proprio uno di quelli che, con molta simpatia ma poca sostanza, usa e abusa del verbo altrui, in questo caso del poeta inglese, soprattutto per mietere le sue vittime d’amore, ma… una farfalla, bellissima ma dalla breve vita, saprà aver in sé il battito d’ali capace di nobilitare i sentimenti dell’impenitente scapestrato?
Il film esce al cinema il 13 giugno con Veikula Distribution, per cui Gianluca Varriale tiene a precisare che “l’indipendenza – di produzione, distribuzione – permetta la genuinità dell’opera, senza una costruzione fatta per speculare: nasciamo dal basso, partendo dalla creatività, provando a fare il massimo non risparmiando sulle location e sul cast. La possibilità di rendere il cinema libero non passa dai contribuiti pubblici, che noi non abbiamo avuto, ma è una scelta artistica, produttiva. L’indipendenza, se manca, non risponde al pubblico che vuole andare in sala”.
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