IL MESTIERE DI CRITICO


Mi si chiede di scrivere qualcosa sui miei 80 anni, che “Ring!” il I° Festival della critica cinematografica, in svolgimento ad Alessandria, si appresta a festeggiare. Lo faccio, sia bene inteso. con lo stesso spirito che mi anima, quando mi si commissiona la recensione di un film, o il profilo di un regista, o il parere su una delle ricorrenti crisi del cinema italiano.
Caso mai con un imbarazzo che di solito, nel mettermi a scrivere, non provo. Proprio perchè l’aver compiuto il 7 luglio scorso 80 anni, non mi ha fatto provare alcuna sensazione, non mi ha indotto di conseguenza ad alcuna riflessione. Forse perché gli impegni quotidiani non mi danno il tempo di pensarci, o forse perchè il pensarci non mi gratificherebbe più di tanto.
Come vantarsi di avere piantato gli studi d’ingegneria navale a 5 esami dalla laurea per fare il critico cinematografico? Non per fare il missionario in Africa, o darsi alla politica, o esprimere il proprio talento in qualche arte, o esibirsi su qualche palcoscenico, ma semplicemente per scrivere di cinema, per vivere come un paguro sulle spalle della creatività altrui, me lo ripete ogni tanto con affettuoso disprezzo il mio secondogenito architetto e scenografo.
L’unica giustificazione che posso addurre a conforto di una decisione che oggi più che mai dovrebbe apparirere inconsulta. Oggi che i critici di quotidiani e settimanali, quando trovano spazio, debbono limitarsi a compilare dei boxini e delle minicritiche; oggi che, i mensili di cinema, non li legge più nessuno. L’unica giustificazione, dicevo, potrebbe essere data dall’aver iniziato la mia carriera, non come critico, ma come organizzatore di Circoli del cinema. “Operatore culturale” sarebbe il termine attualmente in uso, un’attività che nell’immediato dopoguerra ti dava la sensazione di creare qualcosa, l’illusione di migliorare i gusti del pubblico, o di creare il pubblico di domani, e anche di soddisfare un tuo particolare capriccio: quello di renderti possibile la visione di film altrimenti invisibili.
A rifletterci, se ho acquisito un minimo di notorietà, lo debbo proprio all’attività nell’ambito dei Circoli del cinema, che mi ha consentito di trasferirmi dalla direzione di un circolo periferico alla direzione della federazione che da Roma li rappresentava. Di passare poi a dirigere la segreteria del Circolo romano del cinema, che nel frattempo era divenuto il circolo riservato ai professionisti del settore. Poi ancora a dirigere la segreteria dell’Anac, mansioni che tra l’altro anziché impedirmela, facilitavano enormemente la professione di critico e giornalista cinematografico.
Tanto per fare un esempio, non avevo bisogno di rincorrere questo o quel regista, qualsiasi cosa avessi da scrivere su di lui, visto che il più delle volte erano loro a chiamarmi, magari a ore antelucane, come il carissimo Alessandro Blasetti, col quale avevo un rapporto telefonico pressoché quotidiano alle sette e mezzo del mattino.
Debbo proprio a questa attività, che in teoria nulla aveva da spartire col giornalismo e la critica, se ho conosciuto fuori da ogni ufficialità una serie di persone a loro modo eccezionali, dai “padri fondatori” Blasetti e Camerini, a un Visconti molto più “alla mano” di quanto generalmente si pensi. A Rossellini, che per me è stato quasi un maestro di vita: mi ha insegnato a eliminare dal vocabolario il verbo “lavorare”, prendendo esempio dai napoletani, che usano a seconda dei casi i verbi “divertirsi” o “faticare”. A Zavattini, che non mi ha mai perdonato dì avere abbandonato a metà degli anni Sessanta l’attività di organizzatore. Ad Amidei, celebre per i suoi scatti d’ira; ad Antonioni con la sue rabbie infantili; a Steno e Monicelli, Age e Scarpelli, divertenti e cinici come i loro fìlm; a Germi, di una testardaggine unica nelle sue decisioni. Per non parlare di Pirro e Solinas, di Elio Petri e Damiani coetanei che trattavo come compagni di cordata; di Gillo Pontecorvo, da cui ho abitato per alcuni anni; di De Sica, che consideravo un po’ parente dato che ho sposato Lucia Rissone, nipote di sua moglie, Giuditta.
Quanto alla critica, anche se mi ha impegnato molto, l’ho sempre considerata il mio orticello privato. Perciò non mi va di parlarne. E un orticello privato lo è effettivamente stato durante i 13 anni in cui scrivevo per il settimanale “ABC” dove il direttore Gaetano Baldacci (l’altro mio maestro) volle che mi occupassi anche di cronaca e di politica, fino a eleggermi responsabile della redazione romana.
Occuparsi d’altro, serve anche alla professione di critico cinematografico. E’ l’unico consiglio che posso elargire ai giovani. Altrimenti si rischia di fare la figura di quel bravissimo critico dei “Cahiers”, il quale pensava che la guerra del Vietnam fosse esistita solo nella fantasia dei cineasti di Hollywood. Probabilmente la storiella non è vera, ma è indicativa.

11 Ottobre 2002

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