Essere l’unico celerino di origini africane all’interno del Reparto Mobile di Roma non è un dettaglio, soprattutto quando la tua infanzia è passata in una di quelle case occupate che ora sei costretto a sgombrare. L’idea alla base del cortometraggio con cui il regista italo-bielorusso Hleb Papou si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia è una di quelle che non ha bisogno si spiegazioni. Colpisce fin da subito perché nasconde in sé un potenziale drammaturgico evidente, tanto da giustificare la trasformazione in un film vero e proprio, Il legionario, presentato all’ultima edizione del Festival di Locarno, e pronto a uscire nelle sale dal 24 febbraio distribuito da Fandango.
Protagonista è Daniel, interpretato da Germano Gentile, un colosso di muscoli dalla pelle nera e dall’accento smaccatamente romano. È uno degli uomini migliori della squadra celere della Capitale e, nonostante, il soprannome poco politically correct di “Ciobar” e le derive politiche estremiste dei suoi colleghi, è accettato dal gruppo come uno di famiglia, un fratello che ti spalleggia fedelmente sul campo di battaglia. Quella che Daniel e i suoi compagni devono affrontare ogni giorno, infatti, è descritta come una vera e propria guerra urbana fatta di manganellate e insulti, in cui l’unica cosa che conta è la fiducia reciproca.
Fiducia che verrà messa in discussione quando il giovane celerino, da poco trasferitosi in una nuova casa con la moglie incinta, sarà costretto a prendere parte allo sgombero del palazzo occupato dove è cresciuto e in cui si trovano ancora la madre e il fratello. Daniel si trova improvvisamente tra l’incudine e il martello, o meglio tra lo scudo e il manganello, costretto a tradire una delle sue due famiglie. Da una parte le persone che lo hanno aiutato a diventare l’uomo che è ora, nonostante le difficoltà economiche e sociali, dall’altra il gruppo di persone che, al netto delle ideologie, lo ha accolto e protetto, permettendogli di entrare a far parte attivamente della società. A incarnare queste due realtà opposte sono il fratello Patrick (Maurizio Bousso) e il comandante della sua squadra (Marco Falaguasta), due uomini antitetici per posizioni ideologiche, uniti da una sola caratteristica: lo sforzo di essere dei padri presenti e affettuosi.
Hleb Papou con una regia pulita ed essenziale che, nonostante il budget risicato, si ispira al Sollima di ACAB e Gomorra – La serie, ci porta sapientemente all’interno di un limbo, in cui nessuno ha mai veramente torto o ragione e in cui il protagonista diventa vittima delle contraddizioni della nostra società. Ago della bilancia di una guerra tra disgraziati, alla fine della quale non ci possono essere vincitori, ma solo uomini e donne sconfitti, sempre più polarizzati su posizioni estreme e inconciliabili riassunte in slogan come “la gente come noi non molla mai” che tanto abbiamo sentito negli ultimi mesi. Frasi vuote che, nell’assenza delle istituzioni, vanno alla ricerca di una comunanza disperata, che degenera inevitabilmente in una lotta fratricida.
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