Una cinepresa si infila sotto il burqa, l’abito di cotone che ricopre da capo a piedi le donne afgane. E tutti vediamo il mondo, la moschea che si profila in lontananza, come chi guarda da dietro quella grata ricamata: attraverso sbarre di un carcere che ti porti addosso, che non ti abbandona mai.
È l’ultima inquadratura di Viaggio a Kandahar, il film del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf presentato in concorso a Cannes, in uscita nelle sale italiane il 12 ottobre. Ed è la chiave di tutto il film. In prigione, di nuovo sotto un burqa, si chiude Nafas, la giornalista che torna per salvare la sorella che non ha voluto andarsene, e che ora vuole suicidarsi per disperazione. È la sua domanda a chiudere il film: ha senso, per lei che ora vive in Canada, tornare e ritrovarsi prigioniera? In prigione è il popolo afgano, che del prigioniero nel film mostra l’infinita sapienza e pazienza dell’arte di sopravvivere. Mille trucchi e inganni per combattere i nemici: la fame e il dominio di autorità tiranniche, mullah imperscrutabili e indifferenti nel nome del dio con cui si identificano. È una trama di menzogne e piccole furbizie. Magari per procurarsi due gambe finte, e cercare di rivenderle subito, piccolo guadagno sulla disgrazia propria e di tutti. Efficace messa a fuoco di una piaga endemica del paese, le bombe sparse dovunque, un regalo di venticinque anni di guerra, dall’invasione russa a quella dei talebani. Guardare questo film-documentario il giorno dopo la prima incursione missilistica degli Stati Uniti è un pugno allo stomaco al quadrato, uno shock nello shock.
Povertà, miseria, niente di niente. Si può colpire ancora di più questo popolo straziato? Si possono peggiorare ancora le condizioni di vita di poveri mutilati che prenotano da un anno all’altro le terribili, massicce e preziose gambe di legno che gli procurano volontari della croce rossa? Si può colpire il nulla?
Ma il viaggio di Nasfas non è solo un viaggio nella miseria. È un viaggio nel potere assoluto e arbitrario di chi pretende di parlare a nome di dio. La denuncia non ha bisogno di parole infuocate, basta far vedere, basta raccontare. Forse per questo i talebani hanno proibito tutte le immagini: ne temono la potenza. Preciso come un documentario etnologico, Makhmalbaf mostra come si svolge una vista medica quando il dottore non può né vedere né toccare né parlare con la paziente. Soprattutto mostra come le donne diventano “teste nere”, come vengono chiamate. Tra deserto, sabbia, cieli limpidi e sole infuocato camminano, cantano, cucinano donne chiuse sotto il burqa. Bellissime. Perché il burqa è un oggetto affascinante: nei colori, dalle sfumature delicate di celesti, di gialli, di tutti i toni del grigio. Nelle mille pieghe ricamate con pazienza. È il paradosso più crudele, il cuore segreto del dominio che il regista porta alla luce. La prigione che seppellisce le donne è un involucro meraviglioso, riempie il film di inquadrature perfette. La perfezione di una statua, di una cosa. Dimentichi che lì sotto respira [a fatica] un umano, ti perdi di fronte alla bellezza dell’oggetto.
Allora, quando sei rapito, quando ti scopri a pensare “che bello”, quando ormai sei sedotto, o sedotta, il regista ti porta lì sotto, sotto quel telo di cui hai ammirato la perfetta caduta delle mille pieghe. Ora sei catturato: sei dentro, sei dietro le sbarre.
Oggi la guerra è di nuovo virulenta, in Afganistan. Forse il terrorismo verrà sconfitto. Le donne, saranno libere? Difficile dirlo. Certo non saranno le bombe a cambiare la testa di uomini che si sentono disonorati, se altri guardano la donna che è con loro, perfino se non è della famiglia. Bisognerà che loro, le donne, smettano di ricamare le loro meravigliose prigioni.
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