Non c’è da fare nessun paragone, nessun dibattito tra “meglio” o “peggio”, “prima” e “dopo”. Il colore viola (1985) – classico di Steven Spielberg – alla soglia dei quarant’anni dall’uscita al cinema resta “Il colore viola di Steven Spielberg”, inutile scomodarlo per Il colore viola di Blitz Bazawule, che però dalla sua “famiglia d’origine” si può dire abbia ricevuto la benedizione, perché il titolo attuale è co-prodotto dallo stesso regista americano e da Oprah Winfrey, interprete nell’originale, qui insieme a Scott Sanders e Quincy Jones.
La vicenda, sempre liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Alice Walker, procede per soste temporali – così come le si sono conosciute nel film di Spielberg -, basata sulla costa dello Stato americano della cattolicissima Georgia, dal 1909 al 1947. La progressione, però, sceglie un genere, che non è solo quello drammatico, proprio della storia, ma è quello artistico del Musical, e la maestria degli americani in materia non si lascia attendere, con studiate sequenze musicali, spesso suggestive, talvolta trainanti, di cui però il film non si fa bulimico, procedendo nel suo svolgimento denso e complesso, che riceve però dalla musica un’opportunità ulteriore, che imprime a questo Il colore viola la propria personalità, evitando qualsiasi termine di paragone, lasciando il titolo originale cristallizzato nel suo onore e, così, presentando al pubblico un film a sé stante, possibile al di là del precedente.
Celie (Fantasia Barrino al debutto nel lungometraggio, nel ruolo che fu di Whoopi Goldberg), Shug (Taraji P. Henson) e Sofia (Danielle Brooks, nel ruolo che fu della Winfrey) sono l’essenza portante della storia, con la malinconica e persistente presenza spirituale di Nettie (Ciara), sorella di Celie, che – a seguito dei soprusi del padre, o quello che loro credono tale, per cui Celie stessa è stata vittima d’incesto e mamma dilaniata dal vedersi strappati due neonati nei primi istanti dalla loro venuta al mondo – ha deciso di partire… promettendo però a quella sorella, a quell’individuo a cui la stringe molto più che un legame di sangue, piuttosto un sentimento d’amore e un commovente senso di accudimento, di scrivere ogni settimana della sua vita una lettera, perché loro due – come si cantano a vicenda – sono “un solo cuore”.
Celie, ingenua e disarmata emotivamente, resta nel luogo natìo, stretta nella morsa del potere maschile, passando da un padre padrone a un altro: infatti il padre, il signor Harris, “…per un paio di uova” la costringe in sposa a Albert Johnson (Colman Domingo), detto “Mister” – nomen omen, vedovo e con tre figli, per cui Celie non è una compagna ma una domestica, da gestire a proprio uso e consumo, come fosse “una cosa”, e da picchiare, come nemmeno si farebbe con una bestia, qualora la stessa non ubbidisse, secondo il giudizio di lui. E se Celie, remissiva di spirito e rassegnata di conseguenza, accetta, Sofia dice “no!”.
Sofia, la vivacissima e esuberante moglie del figlio di Mister, Harpo (Corey Hawkins), è una femmina consapevole del proprio stato di essere umano, che non prova nessun senso d’inferiorità rispetto al maschio, né rispetta nessuna gerarchia di sottomissione da parte dello stesso. Una storia d’amore la loro di grande sentimento ma di altrettanta lucidità femminile, tanto che la stessa – nel frattempo affezionatasi a Celie, che in fondo la guarda con ammirazione – non indugia ad andarsene di casa prima ancora che il marito possa averla sfiorata, ma al solo essere venuta a conoscenza che il padre, e Celie stessa, gli abbiano indicato che per domarla l’unico metodo sia picchiarla: “…mi ricordi mia madre … farai meglio a reagire … finché sei viva”, sono le parole che Sofia sbatta in faccia a Celie.
E poi arriva Shug, Shug Avery, sciantosa, affascinante, libertina giramondo, cantante dall’ammaliante voce e signora che perfettamente incarna autonomia e disinvoltura, all’esatto opposto di Celie, che la ospita in casa sua, per volere di Mister, che non nasconde di desiderarla e con la stessa s’intrattiene… ma questo non evita a Shung di conoscere, rispettare, amare Celie – a cui fa indossare per la prima volta il rossetto, al contempo parlando di Dio, infine portandola al cinema -, per liberarla poi da Mister stesso.
Sì, perché Celie una prima volta aveva sperato di andarsene per sempre da quel luogo, da quell’uomo, ma Shung non l’aveva portata con sé, promettendole però di tornare, cosa che ha fatto, evitando anche che Celie commettesse un gesto disperato, che però l’avrebbe punita e condannata, ovvero tagliare la gola a Mister con la lametta da barba: la cantante mantiene la promessa e, una volta sposata e comoda nella sua vita borghese, la porta con sé in città, a Memphis.
Ma la liberazione di Celie dal sopruso maschile, dalla gabbia del patriarcato, non si circoscrive a questo, e – proprio “grazie a” un uomo, suo padre – si squarcia una prospettiva personale inattesa: durante il necessario ma forzato ritorno alla cittadina natale per il funerale di lui, Celie apprende dalla zia di essere erede dell’emporio del signor Harris, che – sempre in questo frangente – scopre non essere il suo papà, ma l’uomo che la mamma, prima di mancare e lasciare orfane lei e Nettie, aveva sposato, forse sperando di restituire una famiglia alle figlie adolescenti – tempo, lì, dove tutto comincia -, probabilmente ignara di averle messe nelle mani di un mostro incestuoso.
Nasce così la bottega di tessuti di Celie, che produce pantaloni sartoriali: non solo, e non tanto, una florida attività commerciale ma la concretizzazione del riscatto dell’essere umano Celie, che così ha conquistato la verità, anzitutto, quella di essere figlia di una famiglia che non è quella che ha sempre creduto, e quella della libertà personale, che la rende – come Sofia, come Shug – una persona autonoma e indipendente nel decidere di se stessa, senza che un uomo abbia la malvagia libertà di prevaricarla a suo piacimento, al grido musicale femminile, corale, di “guarda chi porta i pantaloni, adesso!”.
Eppure, se “quell’uomo” a cui il ritornello infondo si rivolge è stato prima il suo patrigno, e poi – soprattutto – Mister, la vicenda dà una seconda opportunità anche a lui che a insaputa di lei intercetta un’ennesima lettera da Nettie, corrispondenza tenuta nascosta a Celie per anni, finché non è stata Shug, per caso, a ritirare dal postino una missiva della sorella, che nel frattempo aveva trascorso tutta la sua vita accanto a Olivia e Adam, i suoi nipoti, i figli naturali di Celie, adottati da un pastore e dalla moglie, a cui lei s’era avvicinata come bambinaia, poi scoprendo la verità dei fatti, durante il lungo viaggio per trasferirsi in Africa, la loro terra madre.
È così che Mister, accogliendo la richiesta di Nettie a Celie di cercare di dar loro una mano con i documenti dell’ Ufficio Immigrazione, mette in gioco tutto quel che possiede riuscendo così a riportare l’adorata sorella, i figli, addirittura una nuora e due nipotini, da Celie, che in tutta questa storia di grande sofferenza umana non ha però mai perso la sua Fede, per cui infine ringrazia ancora il suo “Caro Dio” – quello stesso capace di aver donato ai fiori la maliante cromìa del viola – e, cantando nel coro potente di tutta la comunità riunita, Celie ripete: “è la speranza che ci rende liberi”.
Il colore viola esce al cinema dall’8 febbraio distribuito da Warner Bros. Pictures.
Si va dalle magliette con la scritta "I love Parthenope" alla pizza intitolata al film di Paolo Sorrentino, passando per la canzone di Cocciante in testa a Spotify. Fino alla statuetta della ex diva interpretata da Luisa Ranieri
L’attore e regista, durante la pandemia, ha scritto una commedia che ha fatto debuttare lo scorso fine settimana nella capitale ungherese, con cast ungherese: nel poster la Madonna del Cardellino con una strada di NY sullo sfondo
33 anni dopo l’uscita del primo film, e sull’onda del fenomeno Mercoledì di Tim Burton, il cast principale insieme al Los Angeles Comic Con: scatto ufficiale su X
Il film action natalizio è basato su un'idea originale di Hiram Garcia, e arriva in sala il 7 novembre