Il ‘cinegame’ e la ricerca dell’interattività perduta
'Un film Minecraft' è un successo, ma fino a qualche anno fa non sarebbe stato un risultato così scontato. Scopriamo perché i film tratti da videogiochi hanno avuto una storia di insuccessi, fino alla teorizzazione dell'interattività mancante, che ha decretato una svolta nel genere
Era prevedibile: Un film Minecraft è un successo al botteghino. Con un marchio del genere, era difficile fare flop, ma attenzione al titolo.
Non è Minecraft – Il film, ma Un film Minecraft, quasi a sottolineare che il cinema viene prima del gioco, ma soprattutto, che questo film è pensato e concepito come se fosse stato realizzato con il motore del gioco stesso, cosa che ormai capita spesso tra gli appassionati.
Solo qualche anno fa, il risultato non sarebbe stato così scontato. Anzi, il film tratti da videogame erano spesso noti per essere sconclusionati e sopra le righe – quando andava bene – oppure semplicemente una versione noiosa del materiale originale, dato che non era interattiva e giocabile.
Oggi, però, sembra che il ‘cinegame’ abbia trovato la quadra, soprattutto da quando ha iniziato a capire che l’interattività andava compensata con trovate visive e citazioni che potessero in qualche modo teorizzarla, o quantomeno simularla, proprio nella sua assenza.
Ad esempio, un grande successo degli ultimi tempi è stato Super Mario Bros – Il film, che lavorava proprio in questo modo. Il film, in un certo senso, “gioca” con lo spettatore — o meglio, ribalta le regole: è lui a giocare con noi, sapendo bene che stavolta non siamo noi a tenere il controller in mano. Eppure riesce comunque a stabilire un’interazione efficace, coinvolgendoci a tal punto da farci sentire parte della partita.
Poi arrivano i personaggi, e qui le cose si complicano, ma non troppo. Anche in questo caso, il gioco continua attraverso uno scambio di ruoli e prospettive. In linea con una sensibilità moderna che tende a superare lo stereotipo della “principessa in pericolo”, Peach prende decisamente l’iniziativa. Al punto che, spesso, ruba la scena a Mario stesso.
Potrebbe sembrare una forzatura, ma non lo è affatto. I fan più attenti sanno che già in Super Mario Bros. 2 Peach era un personaggio giocabile: bastava sceglierla. In fondo, questo film non fa altro che riprendere quella possibilità. È come se, stavolta, i registi avessero semplicemente scelto Peach per giocare al posto nostro.
Vediamo spesso la macchina da presa spostarsi in posizione laterale per inquadrare i personaggi a figura intera e di profilo, come capitava nei giochi 2D di vecchia generazione, e a certe azioni – come il prendere una stella per rinvigorirsi – corrisponde un relativo jingle.
Con lo stesso grado di intelligenza, Apple Tv è riuscita a trarre un film addirittura dal puzzle game Tetris, che per protagonisti ha solo dei mattoncini da incastrare. La scelta è stata quella di raccontare, in maniera molto romanzata, la genesi del gioco, capolavoro del russo Aleksej Pažitnov, con una storia di spionaggio e guerre fredda.
Chi c’era negli anni ’90 ricorda bene i primi, goffi adattamenti ufficiali: Street Fightercon Jean-Claude Van Damme, ricordato spesso per essere l’ultima interpretazione di Raoul Julia (nel ruolo del villain Bison). Il film era abbastanza sconclusionato, e soprattutto perdeva il fuoco del titolo, dato che non c’era nessun torneo di combattimento da strada.
Un po’ meglio Mortal Kombat con la sua techno martellante e coreografie improbabili, ma la presenza di Christopher Lambert in uno dei ruoli principali.
Duro colpo ilSuper Mario Bros del 1993, antesignano del film di cui sopra, diventato nel tempo un cult trash per antonomasia, ma che a rivederlo bene, anticipa certe tematiche di conversione al realismo del genere fantasy che sarebbero state proprie di autori moderni e rinomati come ad esempio Christopher Nolan. I dinosauri del gioco diventano gli abitanti di una dimensione parallela che si sono evoluti al posto dell’uomo, i funghi una spora velenosa, il tenero rettile Yoshi un cucciolo di dinosauro evoluto, la principessa una paleontologa, e i salti di Mario e Luigi sono ottenuti con trampoli iper tecnologici, il tutto in una cornica dark metallizzato molto cool ma poco attinente con il materiale d’origine.
Più che portare i videogiochi al cinema, sembravano provarci senza sapere bene cosa stessero portando, con risultati che oscillavano tra il kitsch involontario e la pura confusione narrativa.
È solo con Prince of Persia: Le sabbie del tempo(2010) che molti critici iniziano a parlare, per la prima volta, di un film tratto da un videogioco “riuscito”. Non un capolavoro, ma perlomeno un film coerente, divertente, con un’estetica riconoscibile e un protagonista credibile (Jake Gyllenhaal, in versione parkour ante-litteram). Il viaggio nel tempo che nel gioco è un espediente per riavvolgere il nastro e riprovare le azioni fallite, nel film diventa un centro narrativo che permette una risoluzione non banale della trama principale.
Ma c’è anche un’altra strada, forse più fertile, che il cinema ha esplorato: quella dei film che non derivano direttamente da un videogioco, ma ne assorbono meccaniche, estetica e filosofia. Si pensi a Ready Player One di Spielberg – tratto da un romanzo di successo – che fa del citazionismo videoludico il proprio motore narrativo. Oppure a Edge of Tomorrow con Tom Cruise, costruito come un loop di tentativi-fallimenti-respawn degno di uno shooter hardcore.
O ancora, Crank – con il protagonista sempre costretto a rifornirsi di energia per sopravvivere – e John Wick 4, che sembrano livelli giocati in modalità “ultraviolenza”, con protagonisti che attraversano lo schermo come avatar senza tempo per fermarsi o respirare, seguendo logiche più da joystick che da copione.
Perfino il recente Mr. Morfinacon Jack Quaid, con il protagonista incapace di provare dolore, ci ricorda le modalità ‘cheat‘ dei videogiochi in cui i personaggi sembrano non subire danni, ma possono comunque morire se finiscono in un crepaccio.
E non si può, naturalmente, evitare di citare il Tron Disney, iniziatore del cinema digitale, fortemente “game oriented”, che sebbene lentamente nel corso degli anni ha costruito una saga, che sta per vedere il terzo capitolo cinematografico con l’imminente Tron: Ares, interpretato da Jared Leto.
Anche il cammino inverso è stato spesso accidentato. I porting da cinema a videogioco erano spesso sinonimo di lavori frettolosi, ultimati in quattro e quattr’otto da sviluppatori sotto pressione per stare nei negozi in tempo per l’uscita in sala del corrispettivo.
Un caso epocale fu la versione di RoboCop per Commodore 64 prodotta dalla Ocean, che mancava di diversi livelli. Per risolvere in fretta e furia, si pensò bene di rendere l’ultimo livello impossibile da superare, in modo che i giocatori avessero l’illusione di possedere un gioco completo, ma difficilissimo.
Anche la storia diE.T. the Extra-Terrestrialper Atari 2600 è diventata leggendaria… nel senso peggiore. Uscì nel 1982, con l’obiettivo di cavalcare il successo clamoroso del film di Spielberg. Ma venne sviluppato in solo cinque settimane, un tempo ridicolmente breve anche per l’epoca, perché Atari voleva assolutamente lanciarlo in tempo per Natale.
Il risultato? Un gioco confuso, frustrante e praticamente ingiocabile: i giocatori cadevano continuamente in buche da cui era difficile uscire, e il gameplay era vago e poco intuitivo. Nonostante l’enorme attesa e milioni di copie distribuite, fu un disastro commerciale. Atari ne vendette pochissime rispetto alle aspettative e perse centinaia di milioni di dollari.
Milioni di cartucce invendute furono sepolte nel deserto del New Mexico, in una discarica. Il leggendario “giacimento” di cartucce è stato per molto tempo avvolto nella leggenda, salvo poi essere effettivamente scoperto il 26 aprile 2014.
La ricerca è stata parte di un documentario prodotto da Microsoft chiamato Atari: Game Over, con un grande impatto simbolico per la cultura videoludica: era la conferma fisica di uno dei momenti più bui della storia del gaming, diventato ormai quasi un mito. E il paradosso ha trasformato quelle cartucce scartate in oggetti da collezione. Una sorta di rivincita per quel gioco così sfortunato. Questo evento è spesso citato come uno dei simboli del crollo dell’industria videoludica del 1983.
Oggi le cose vanno meglio. Lo stesso RoboCop è attualmente fuori con un gioco più che decente (RoboCop: Rogue City) ed è emblematico il successo di critica e pubblico di Indiana Jones e l’antico cerchio, che ha raccolto riscontri assai più positivi, soprattutto per la qualità della scrittura, dell’ultimo film di Indy al cinema, Indiana Jones e il quadrante del destino.
Tra l’altro, nel gioco recita anche la nostra Alessandra Mastronardi, nel ruolo di Gina, reporter italiana e love interest dell’eroe. Il paradosso è che l’attrice – molto convincente anche in versione digitale – ha doppiato la versione originale, ma non quella italiana, per incompatibilità di impegni.
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