‘Iddu’, così la mafia è tragica e ridicola

Antonio Piazza e Fabio Grassadonia chiudono la trilogia sulla mafia con Iddu L’ultimo padrino, in concorso a Venezia 81 e in sala dal 10 ottobre con 01 Distribution. Un duello di talenti con Elio Germano e Toni Servillo 


VENEZIA – Terzo film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, dopo Salvo e Sicilian Ghost Story, Iddu L’ultimo padrino, in concorso a Venezia 81 e in sala dal 10 ottobre con 01 Distribution, chiude idealmente una trilogia sulla mafia evocata con uno stile lontano dagli stereotipi, a volte astratto, a volte grottesco, sospeso tra realismo e fiaba. Lo spunto è reale, la figura di Matteo Messina Denaro, il boss per trent’anni latitante arrestato a gennaio del 2023 quando è ormai minato da un cancro che lo stroncherà pochi mesi dopo. Ma il lavoro sulla sua figura, per i due registi, è iniziato molto tempo prima.

Ispirato ai famosi pizzini del boss di Castelvetrano Iddu – che a Venezia ha ottenuto il Premio Lizzani al miglior film italiano e il Premio Mimmo Rotella – si costruisce in particolare sul carteggio con un ex sindaco colluso con la mafia che diventa il cavallo di Troia della giustizia per individuare il covo dove Messina Denaro si nasconde. E dunque il film diventa un passo a due costruito su questi due personaggi emotivamente antitetici: Toni Servillo dà al politico Catello una certa aria da guitto, mentre Elio Germano ci restituisce un Messina Denaro gelido, impenetrabile, sia pure con squarci di umanità. Il piccolo Matteo, nella prima scena, riceve dal padre una sorta di investitura criminale quando è l’unico dei tre figli ad avere il coraggio di sgozzare un capretto: il fratello maggiore è un debole, “cosa inutile”, la figlia, pur ambiziosa, sconta l’essere femmina. E dunque il boss Gaetano consegna a Matteo il “Pupo”, scultura preziosa e antica, simbolo di un potere assoluto e sanguinario.

Che comporta anche una reclusione a vita. Messina Denaro infatti si nasconde, esce talvolta di notte e gli sembra una cosa meravigliosa. Lo troviamo nell’appartamento di una vedova borghese (Barbora Bobulova) che funge anche da sua segretaria nella stesura delle lettere con cui impartisce ordini e consigli non potendo muoversi da lì, neppure uscire sul terrazzo dopo che il vicino ha aperto una finestra abusiva. L’uomo ci viene mostrato come un criminale erudito che cita l’Ecclesiaste ed è ossessionato dalla figura paterna, ma non accetta un figlio nato da una delle sue tante avventure. Catello è invece un ex sindaco appena uscito di prigione, amico di vecchia data del padre di Matteo, che lo stimava. Caduto in disgrazia vorrebbe ripartire con il progetto di un albergo e cerca appoggi, ma accetta infine di collaborare con i servizi segreti (Fausto Russo Alesi è l’ambiguo capo delle operazioni, Daniela Marra la poliziotta integerrima).

“Il tragico che si mescola al ridicolo – afferma Piazza – è la cifra del film e del mondo che raccontiamo, un mondo che si prende molto sul serio e proprio per questo diventa ridicolo. Il film è ispirato ai pizzini di Matteo Messina Denaro, in particolare un carteggio con un ex sindaco del suo paese con lo zampino dei servizi segreti. Da quelle lettere emergeva una strana personalità, diversa rispetto a quelle di Riina e Provenzano. A casa di Totò Riina potevi trovare al massimo la Bibbia e i Beati Paoli, invece Messina Denaro si è imbattuto nella lettura, tramite i suoi amici borghesi, e nella latitanza ha cominciato a leggere: Baudelaire, l’autobiografia di Agassi, Le notti bianche. Aveva anche 212 dvd, con film di Antonioni, Coppola e la serie Sex and the city che corrisponde all’altro suo interesse dominante, le donne. Il suo narcisismo ipertrofico si rispecchiava in questi pizzini, da cui emergeva il mondo che lo circondava, i tanti che grazie a lui si arricchivano e facevano affari”.

Aggiunge Grassadonia, classe 1968: “Tutti i fatti singolarmente presi che raccontiamo sono realmente accaduti, ma entra in campo il nostro modo di narrare alla ricerca di un senso, per tirare fuori l’ambiguità insita in queste storie. Matteo è il figlio perfetto. In cui il padre ha riconosciuto il suo erede fin da quando era bambino, un bambino precoce che condivideva i segreti del padre e commetteva azioni criminali. L’unico motivo di attrito tra i due è stato per le aspettative deluse sulla creazione della famiglia, perché il padre era un mafioso ortodosso, mentre lui aveva un debole per le donne e rifiutava la paternità. Ha avuto una figlia che ha riconosciuto solo in punto di morte, in ospedale. In questo mostriamo anche come una forma amorale e patologica di patriarcato abbia bloccato lo sviluppo civile di certi territori. E’ il patriarcato peggiore per cui un uomo intelligente diventa un narciso pericoloso”.

Piazza racconta: “Conosciamo bene l’argomento, anche per ragioni personali. Falcone diceva: smettiamo di chiamarla Piovra perché questi ci somigliano e per Matteo è tragicamente vero. Questo mostro ci somiglia in alcune abitudini e atteggiamenti. È disturbante ma esce dallo stereotipo. Il nostro film racconta una zona grigia. Mio padre – prosegue il 54enne regista – era un piccolo imprenditore edile a Palermo negli anni ’80 e ’90 ed era onesto. Ebbe cantieri bruciati, minacce e quando andò a denunciare, a raccogliere la sua denuncia c’era Bruno Contrada. Poco dopo misero una bomba a casa nostra. A 19 anni, subito dopo il liceo, venne uccisa la mia amica Giovanna Ida Castelluccio insieme al marito Nino Agostino, che collaborava con i servizi segreti per cercare i latitanti. Al loro funerale vennero Falcone e Borsellino”.

Toni Servillo ed Elio Germano sono entrati nel progetto immediatamente. “Abbiamo iniziato a mettere a fuoco i loro personaggi – dice Grassadonia – e poi via via sono entrati gli altri attori, Daniela Marra, Antonia Truppo, Giuseppe Tantillo”. Da segnalare le musiche di Colapesce e la fotografia di Luca Bigazzi, in un film che ha un’alta qualità formale.

Per Elio Germano: “Iddu cerca di raccontare qualcosa di tragicamente ridicolo. Uno è chiuso dentro un appartamento, l’altro si arrabatta per cancellare il suo passato. E’ un ritratto di bassezza umana perché dietro ogni azione malvagia c’è un essere umano. Non possiamo considerare i mafiosi come qualcosa di altro da noi. La mafia, come diceva Falcone, è un fatto di uomini. E’ impossibile riconoscere i meccanismi che ci fanno comportare in un modo se i cattivi sono sempre gli altri. Qui la mafia è frutto di un contesto sociale e di un’educazione. Come uno che diventa notaio perché il padre è notaio. Se i valori sono la difesa dei confini, della famiglia, dei privilegi, il culto delle armi e del profitto a tutti i costi allora sono simili ai valori dei mafiosi”.

“Catello – spiega Servillo – è una specie di saltimbanco assediato dalla disperazione, una maschera che c’è anche in tanto nostro cinema. Un professore di provincia che, per tirarsi fuori dai guai, patteggia la cattura del latitante. Spinge verso un grottesco alla Crozza, alla Brecht, non la farsa ma la dimensione del ridicolo che ispessisce quella del tragico. Sono rimasto sorpreso dal fatto che quest’uomo ricorresse a figure prese da Shakespeare o all’Apocalisse come meccanismo per avvicinare il latitante. Catello riconosce nel personaggio del poliziotto interpretato da Fausto Russo Alesi qualcuno che gioca lo stesso gioco e si intendono in una sorta di seduzione”.

Iddu L’ultimo padrino è prodotto da Indigo e Rai Cinema con Les Films du Losange e il fondo della Regione Lazio per le coproduzioni internazionali (manca il contributo della Sicilia Film Commission, che ha ritenuto il progetto non in linea con le finalità di promozione turistica del territorio), dal MiC è arrivato il tax credit ma non i contributi selettivi. Il produttore Nicola Giuliano evita però di entrare in polemica: “Il contributo selettivo abbiamo provato due volte a ottenerlo, ma ci sono tante richieste e pochi soldi. Il MiC sceglie quelli più meritevoli. Anche altri bellissimi film non sono stati finanziati”.

 

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