Presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma nella sezione Alice nella Città, I racconti del mare è il racconto di una grande avventura. Così la descrive anche il suo regista, Luca Severi, che per il suo terzo film da regista porta sul grande schermo il tema dell’immigrazione raccontando l’attraversata nel Mediterraneo di due adolescenti agli antipodi: Tonino, giovane pugliese interpretato da Luka Zunic, e Ima, un migrante in fuga verso l’italia, interpretato da Khadim Faye. La vicenda è un’occasione per riflettere sul fenomeno dell’immigrazione, antico quanto il genere umano, ma anche sul pregiudizio. Su una barchetta sperduta nell’immensità del mare, i due ragazzi si scontrano, ma il desiderio di sopravvivenza ha la meglio e insieme si trovano perciò costretti a collaborare. La regia di Severi, l’interpretazione dei due giovani e talentosi protagonisti, così come la scelta audace di un registro misto, che non ha paura di includere toni più comici, restituisce un’opera matura e di fondamentale rilevanza per la comprensione del tema trattato e di noi stessi. Luca Severi ci ha raccontato i momenti salienti di questa avventura.
Il tema che hai scelto per il tuo racconto è molto discusso, ma sono pochi i film che propongo delle reali riflessioni al riguardo, anche portando i protagonisti di queste vicende sul grande schermo. Come te lo spieghi?
Credo che il cinema in Italia – ma non solo, ho visto coi miei occhi una situazione molto simile negli USA- abbiamo una ristretta serie di geni assoluti, come Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Luca Guadagnino e pochi altri, che possono fare e dire tutto quello che vogliono, e a cui l’industria concede tutto: mezzi, linguaggi, temi. Per il resto degli autori, c’è una forte spinta a giocare sul sicuro. Mi piacerebbe vedere autori emergenti rischiare di più, sperimentare stili, tecniche, linguaggi, tematiche. Il tema del migrante è ostico: quando gli italiani vanno all’estero, sono la “fuga dei cervelli”; quando gli stranieri vengono da noi, sono “migranti”.
Parlaci dello sforzo fisico di affrontare il set in mare, con tutte le difficoltà che comporta. Come è stato lavorare in queste condizioni?
Le condizioni di ripresa sono state sicuramente difficili, ma anche molto stimolanti. Essere veramente in mezzo al mare aiuta a immedesimarsi nel personaggio. Non è stato un difetto, anzi: è stato un elemento aggiuntivo. Per quanto riguarda la sintesi tra i due personaggi, è stato importante riuscire a trattare il tema spogliandolo di ogni ideologia e substrato geopolitico, per parlare di un confronto tra due culture, che può diventare anche molto divertente. Il pregiudizio è parte di ciascuno di noi, ma se lo si guarda per ciò che è, si scopre che può diventare superabile e, talvolta, persino divertente.
Dal punto di vista del costruzione del rapporto tra i due protagonisti, come hai costruito la sceneggiatura e quanto spazio hai lasciato ai tuoi attori?
Non ci sono state molte battute improvvisate, tranne quelle in wolof, la lingua senegalese, che Kadim Faye ha utilizzato naturalmente nelle scene con la madre. Il resto è stato piuttosto fedele alla sceneggiatura, per mantenere coerenza nelle riprese, che erano molto complicate. Era importantissimo creare un’affinità tra gli attori, e ci abbiamo provato sia in fase di prove sia sul set. La dimensione produttiva ci ha aiutato molto: tendenzialmente viviamo e lavoriamo tutti insieme, condividendo tempi e spazi dentro e fuori dal set.
Quanto è importante per te lavorare con un cast coinvolto dai temi che porti sullo schermo?
Per me è fondamentale che il cast condivida la modalità produttiva, che è molto diversa e lontana dal cinema tradizionale italiano. Fare cinema indie è una realtà specifica: noi viviamo come una carovana, una specie di circo, e costruire un percorso produttivo del genere richiede condivisione e fiducia. Questo coinvolgimento è essenziale per la buona riuscita del progetto.
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