Un Premio alla carriera alla 19ma Festa di Roma, il suo secondo film da regista, il western al femminile The Dead Don’t Hurt in Grand Public, e domani il 66° compleanno. E’ in gran forma Viggo Mortensen, l’attore americano di origini danesi, un globetrotter che parla sette lingue (qualcuno dice nove) tra cui un discreto italiano e un ottimo spagnolo, essendo cresciuto a Buenos Aires: “Ancora adesso mi esprimo perfettamente in argentino ma con il lessico degli anni ’60 suscitando qualche ilarità”.
L’attore, che ha spaziato dal ruolo di Aragorn nella trilogia de Il Signore degli Anelli ai set cerebrali di David Cronenberg che lo ha diretto in quattro film (A History of Violence, La promessa dell’assassino, A Dangerous Method e Crimes of the Future), interprete di titoli come Witness – Il testimone, Carlito’s Way, Soldato Jane, Appaloosa e The Road, ha avuto tre candidature all’Oscar per La promessa dell’assassino, Captain Fantastic e Green Book, ma segna al suo attivo anche una prima regia eccellente nel 2020 con Falling – Storia di un padre, in un cui affronta il tema delicato della demenza ma anche le difficoltà di rapporto tra un padre e un figlio divisi da abitudini e concezioni di vita.
In oltre un’ora di masterclass, Viggo Mortensen si è raccontato generosamente a partire dall’infanzia, stimolato dalle domande di Malcom Pagani. “Il primo film che ricordo di aver visto è Lawrence d’Arabia, a Buenos Aires a 4 anni. Amavo i cavalli, come anche adesso, e durante l’intervallo mia madre mi chiese come pensavo che sarebbe andata a finire. Io ho detto: andrà bene perché loro sanno andare a cavallo meglio degli inglesi. Ho visto tanti film con mia madre a Baires, un altro che ricordo bene è Cronica de un nino solo di Leonardo Favio, l’opera prima di un regista argentino che sarebbe diventato famoso, ispirata al neorealismo”.
Con due fratelli più piccoli, Viggo è cresciuto nei primi anni tra la capitale e il Nord, “giocavamo insieme ma a me piaceva anche stare da solo, ricordo che immaginavo di essere un esploratore, un gaucho, un indigeno, tutto questo senza limiti. Mi piaceva molto stare da solo e anche adesso posso stare da solo per giorni, senza parlare, ho un rapporto molto forte con la natura, pur amando le persone”.
Il divorzio dei genitori, quando aveva 11 anni, lo porta dall’Argentina agli Stati Uniti, al confine con il Canada. “Un divorzio, anche se amichevole, è sempre traumatico. Ricordo che uno dei miei fratelli parlava solo spagnolo e arrivò a definire l’inglese una lingua spazzatura, mia madre era molto preoccupata. E’ stato uno sradicamento completo, anche perché adesso ci sono gli smartphone e i social, ma allora non c’era niente. Avevo i fumetti in spagnolo e i souvenir della squadra del San Lorenzo, per cui tifavo e tifo ancora”.
L’idea di fare l’attore è arrivata tardi, verso i 22 o 23 anni. “Ho cominciato a chiedermi come erano fatti i film, quale fosse il trucco. Ricordo film che mi colpirono, quelli di Bergman, Una giornata particolare di Scola, Il cacciatore. Ho pensato che fossero gli attori a far accadere tutto, poi ho capito che c’erano anche una sceneggiatura, un regista, un montatore. Il viaggio dalla pagina allo schermo è un fatto complicato e poi come attore sei solo un colore sulla tavolozza, mentre il regista è responsabile dell’intero progetto”.
Nel frattempo aveva fatto tante esperienze, “ho lavorato al porto di Copenhagen e in una fabbrica, ho venduto fiori per strada e ho fatto il barista”.
E’ celebre per la sua attenzione maniacale ai dettagli. “Sui miei set non ci sono telefonini e neanche sigarette. Come regista sono severo. In generale mi preparo molto. Se posso andare nella città del personaggio, ci vado, mi sento più a mio agio. Fai un buon lavoro di preparazione e poi sei più rilassato. Il periodo delle ricerche è una cosa che resta anche se il film non viene bene. La mia idea è quella di essere naturali. Per esempio nel western io sono a mio agio con i cavalli, altri attori no. Certe inesattezze non rovinano il film, ma insomma, un po’ sì. Se devo fare uno straniero, cerco qualcuno che parla come il personaggio, proprio la lingua della strada”.
Adottato dagli indiani Lakota, che gli hanno anche dato un nome, ha fondato una casa editrice, la Perceval Press. “A volte quando dirigi un attore riesci a vedere dov’è l’ostacolo e puoi aiutarlo, fare l’editore è qualcosa di simile, vuol dire trovare soluzioni, scegliere e selezionare. Fare un buon libro è un lavoro artigianale. Come regista è uguale, per esempio io sto sempre in sala montaggio”.
Lo ha imparato dai registi con cui ha lavorato? “I registi sono tutti diversi, alcuni provano molto, analizzano, sono persino accademici, altri non provano per niente, come David Cronenberg, che però ascolta molto e se l’idea è buona, la usa. La cosa migliore, nel cinema come nella vita, è essere flessibili, adattabili. Ricordo che Cronenberg non riuscì a girare in Canada l’ultimo film Crimes of the Future, per motivi di budget, e andammo in Grecia. Aveva una troupe completamente nuova, era tutto nuovo”.
E poi: “Anche gli attori sono molto diversi tra loro, ci sono quelli che non vogliono essere guardati negli occhi e lo fanno scrivere nel contratto, ma tu devi lavorare con tutti”.
Affronta il tema della mortalità e la difficoltà di accettarlo e parla della grazia, “la trovo nell’inaspettato atto di gentilezza che avviene tra sconosciuti, quando qualcuno che ti sorride perché capisce che hai avuto una brutta giornata, quando aiuti qualcuno anche mettendo a repentaglio la tua vita. Io cerco di essere aperto, tollerante, anche se non sempre si riesce”.
Critica la perdita della memoria collettiva, l’informazione usa e getta, una società poco attenta all’altro. “La cosa più triste è quando vedi due persone a cena insieme al ristorante che stanno entrambe chine sul proprio telefono”.
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