VENEZIA – Hounds of love, dell’australiano Ben Young, presentato alle Giornate degli Autori, è un saggio sulla psicologia femminile in una relazione distruttiva, presentato nella forma di crime movie al contempo crudele ed elegante. Verso la metà degli anni ’80, la diciassettene Vicky Maloney, di Perth, viene sequestrata in una strada di periferia da una coppia di squilibrati. Una volta osservata la dinamica del rapporto tra i suoi rapitori, capisce che se vuole uscirne viva deve provocare una faglia tra di loro. “Non si ispira a un caso specifico – spiega il regista – ho studiato nove casi di storie di crimine dove erano coinvolte donne killer. Chiaramente ci si chiede come sia possibile che una donna, magari anche madre, possa essere così crudele noi confronti di un’altra donna. In tutti i casi che ho studiato era coinvolto un uomo oppressivo, e in tutti i casi queste donne erano totalmente dipendenti da lui, erano convinte di farlo per amore, solitamente in seguito a un grosso vuoto creatosi durante l’infanzia, con la perdita di un genitore o peggio ancora, con abusi subiti a loro volta. E’ un vuoto d’amore a provocare tutto questo. E’ come se le donne dipendessero dall’amore e in suo nome fossero disposte a fare qualsiasi cosa, pur di non perderlo. Ma non volevo fare un film completamente oscuro. Il messaggio che intendo lanciare è positivo. Vorrei far capire che per quanto sia terribile la situazione, c’è un modo per venirne fuori, sarebbe bello se il pubblico vedesse questo nel film, e in particolare il pubblico femminile, al quale mi rivolgo. Anche per questo ho lavorato sulla psicologia dei personaggi, non volevo che la violenza fosse troppo grafica, il sangue si vede soltanto alla fine. Non volevo fare un crime movie dal finale scontato, ho cercato di mantenere viva fino all’ultimo la tensione. Sono contento perché le donne che hanno visto –pochissime, non ha ancora avuto proiezioni pubbliche- il film si sono commosse e mi hanno fatto capire di averlo apprezzato”.
All’ambientazione anni ’80 è abbinata una colonna sonora proveniente dallo stesso periodo: “E’ il periodo in cui sono cresciuto, e ci sono vari motivi per cui l’ho scelto. Innanzitutto, nella periferia Australiana gli edifici sono rimasti fermi a quell’epoca, era un modo economico per rendere interessante il look e la fotografia del film, dato che non avevo poi tanto budget. Inoltre, rende più facile lo svilupparsi della storia. Oggi con i social network e Internet le cose si sviluppano in maniera diversa. Se qualcuno sparisce la prima cosa che fai è controllare la mappa del GPS sul cellulare, per sapere dove si trova. Quando ero piccolo una volta sono sparito per un intero week-end e tutto sommato nessuno si era fatto troppe domande. E poi naturalmente c’è la musica. Cercavo un titolo, ero in palestra e le cuffie hanno iniziato a suonare Hounds of Love di Kate Bush. Tutto funzionava: loro sono come due mastini terribili che compiono gesti crudeli in nome dell’amore. In più, hanno un cane, che ha un ruolo nella dinamica del loro rapporto. Sapevo che avrei voluto mettere quella canzone nel film. Avrei voluto anche usare i Doors, ma non potevo permettermeli, mentre invece sono riuscito a inserire Cat Stevens”.
Ora il regista sta scrivendo un altro film su tematiche analoghe, dal titolo The Unloved: “E’ ambientato nel 1976 – conclude – e si concentra sempre su personaggi femminili. Mi piace esplorarli proprio perché sono un universo lontano. Amo le sfide”.
Sarà Microcinema a distribuire nelle sale italiane il film Leone d'Oro 2016, The woman who left, nuovo capolavoro di Lav Diaz. La pellicola, che nonostante il massimo riconoscimento al Lido non aveva ancora distribuzione e che si temeva restasse appannaggio soltanto dei cinefili che l'hanno apprezzata alla 73esima Mostra di Venezia, sarà quindi visibile a tutti, permettendo così agli spettatori del nostro Paese di ammirare per la prima volta un'opera del maestro filippino sul grande schermo
Il film di Denis Villeneuve segnalato dalla giuria di critici e giornalisti come il migliore per l'uso degli effetti speciali. Una menzione è andata a Voyage of Time di Terrence Malick per l'uso del digitale originale e privo di referenti
Il direttore della Mostra commenta i premi della 73ma edizione. In una stagione non felice per il cinema italiano, si conferma la vitalità del documentario con il premio di Orizzonti a Liberami. E sulla durata monstre del Leone d'oro The Woman Who Left: "Vorrà dire che si andrà a cercare il suo pubblico sulle piattaforme tv"
Anche se l’Italia è rimasta a bocca asciutta in termini di premi ‘grossi’, portiamo a casa con soddisfazione il premio Orizzonti a Liberami di Federica Di Giacomo, curiosa indagine antropologica sugli esorcismi nel Sud Italia. Qualcuno ha chiesto al presidente Guédiguian se per caso il fatto di non conoscere l’italiano e non aver colto tutte le sfumature grottesche del film possa aver influenzato il giudizio finale: “Ma io lo parlo l’italiano – risponde il Presidente, in italiano, e poi continua, nella sua lingua – il film è un’allegoria di quello che succede nella nostra società". Mentre su Lav Diaz dice Sam Mendes: "non abbiamo pensato alla distribuzione, solo al film. Speriamo che premiarlo contribuisca a incoraggiare il pubblico"