“L’americano utile come artista è colui che studia la propria vita e registra le proprie esperienze, in questo modo fornisce prove. Se un uomo ha qualcosa da dire troverà un modo per farlo. Il grande pittore è colui che ha qualcosa da dire; non dipinge uomini, paesaggi o mobili, ma un’idea”.
Così s’inquadra il profilo di Edward Hopper in Hopper. Una Storia d’amore Americana, mentre le parole della narrazione accompagnano immagini di suoi autoritratti – disegni e dipinti meno comuni ai più, perché la pittura più pop e sdoganata del pittore statunitense sono i fermi immagine di spaccati di vita americana o l’introspezione dei paesaggi. Hopper ha contribuito – nell’immaginario collettivo – a fissare l’identità dell’America, quella urbana, quella panoramico-naturale e quella dello spirito umano.
Ma è la vita privata, e ampia parte del suo successo in capo alla moglie Jo (Josephine Verstille Nivison ) – il cui talento fu osteggiato dall’artista, di cui sarà la mentore – a cui si deve l’ascesa di Hopper, per l’allure della stessa nei “giusti ambienti” newyorkesi. È dunque un doc d’arte, ma un doc che raccontando molto dell’essere umano permette di comprendere l’esplosione dell’artista.
“L’illustrazione a me non interessava, sono stato costretto a farla per guadagnare un po’ di soldi, tutto qui. Davvero non mi importava. Sono sempre stato interessato all’architettura”, racconta “la voce” di Hopper, geografo emotivo, capace di dipingere il silenzio, le attese e la solitudine.
L’America a tutto tondo ha ispirato l’opera di Hopper, che a sua volta è stato ispiratore, sia di illustri pittori, da Rothko a Banksy, sia di autori del cinema, da Hitchcock a Lynch.
Il passo riflessivo della pittura hopperiana ha un andamento – per lo spettatore – capace, come la Letteratura scritta, di permettere non solo di essere motivo di osservazione visiva, ma di avere il valore aggiunto – come accade con la parola scritta – di poterci tornare sopra, “rileggere” più o più volte – finché la comprensione non sia limpida o, quantomeno, capace di suscitare il giusto movimento emotivo, sì istintivo al primo sguardo – perché questo sanno smuovere i blu notturni e i gialli neon di Hopper -, ma, altrettanto, essere lo specchio di un racconto antropologico, che potrebbe tranquillamente essere contestualmente letto e guardato, e viceversa.
Phil Grabsky, regista del documentario, spiega: “inizialmente sono stato attratto dall’idea di un uomo scorbutico, monosillabico e sgradevole, ma ho imparato che questa era una sintesi molto ingiusta dell’uomo Hopper, che è stato molto più complicato e complesso di così. Durante gli studi per il film, ho scoperto che non si può capire Edward Hopper senza capire sua moglie, Jo. È per questo motivo che, con il progredire delle ricerche, abbiamo cambiato il titolo in Hopper. Una Storia d’amore Americana, alludendo sia al suo amore per l’architettura e i paesaggi americani, sia al suo rapporto con Jo. L’eliminazione della folla dalle sue scene urbane ci permette di concentrarci sulla narrazione di una persona sola e della sua solitudine”. Grabsky sceglie proprio il concetto di “amore” evocato dal titolo per raccontarne il prisma: l’amore per l’architettura, l’amore per i paesaggi, l’amore per certi stati d’animo umani, dall’isolamento alla solitudine, ma anche – in fondo -, l’amore per la compagna di vita, discriminante per il suo successo.
Hopper. Una Storia d’amore Americana è un film evento, appuntamento de La Grande Arte al Cinema a cura di Nexo Digital, al cinema il 9 e 10 aprile.
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