Ottant’anni fa nasceva un uomo con le fattezze di un angelo. Ottant’anni fa nasceva un uomo con l’anima divorata dai demoni. Stiamo parlando della stessa persona: il grande attore Helmut Berger nato 80 anni fa, il 28 maggio del 1944 e morto l’anno scorso a pochi giorni dal suo 79° compleanno.
Le nuove generazioni lo hanno dimenticato e il suo nome galleggia sulla superficie dell’oblio, ma è un attore che ha segnato con la sua presenza chiaroscurale la stagione d’oro del cinema italiano a cavallo degli anni 70.
Helmut Steinberger – questo il suo vero nome – apparteneva a una modesta famiglia di albergatori, ma ha sempre visto se stesso come un principe, un aristocratico di quel teatro delle illusioni che è il mondo dello spettacolo.
È stata una stella dal brillio accecante, e allo stesso tempo ha conosciuto le ombre più oscure.
Una personalità ambivalente, figura simbolo della promiscuità bisessuale, tanto più affascinante perché inafferrabile. Lui stesso nella sua autobiografia – Autoportrait – comincia scrivendo:
“Chi mi conosce sa della mia formidabile ambiguità: posso essere l’uomo più gentile, così come il più sgradevole. Chiunque abbia sperimentato quest’ultimo aspetto della mia personalità non lo dimenticherà mai. E nemmeno Alain Delon, Marisa Berenson o Richard Burton. Delon voleva davvero portarmi via il grande amore della mia vita, il geniale regista, l’arguto, tenero ed elegante Luchino Visconti. Delon non aveva nulla da offrire, voleva solo i ruoli migliori. Era geloso di me e invidiava il mio successo”.
Ma se si fa un passo indietro, fino all’incipit dello stesso libro si scopre il suo cuore messo a nudo. È un grido disperato quello di Helmut: “Ho bisogno di amore! Avete capito? Tutta la mia vita è ruotata intorno a questo desiderio di essere amato”.
Forse essere amato da più gente possibile. Lo dimostra da subito.
La sua infanzia e la sua giovinezza le passa a Salisburgo, città che ha ospitato i suoi inizi e la sua fine, città che lo ha sempre attirato e respinto al contempo. È qui che i suoi genitori gestivano un umile pub dopo la guerra. Suo padre fu prigioniero degli inglesi e tornò solo tre anni dopo la fine del conflitto. Helmut doveva aiutare a servire la birra. Se ne andò appena poté.
“Ne avevo abbastanza del pub. Con i bicchieri pieni e gli ubriachi. Al diavolo il motto “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”. La puzza di mediocrità era tutto ciò che emergeva dalle masse. E io non ne facevo parte. Una vita con questa gente? Io no! Sono stato abbastanza a lungo il figlio educato e obbediente di un padre civile, efficiente e ligio al dovere. Il mio regalo per lui era il diploma d’albergo, che mi sembrava solo un mezzo per raggiungere un fine. Nel caso in cui avessi finito i soldi per il viaggio o gli assegni di mia madre non fossero stati sufficienti”.
Quella madre da cui torna dopo che il vecchio proprietario di casa lo ha cacciato dal suo leggendario appartamento in Via Nemea a Roma. Ha vissuto gli ultimi tempi nell’odiata/amata Salisburgo e invece di svegliarsi con la Città Eterna ai suoi piedi, ogni mattina guardava la strada principale verso Bad Reichenhall.
Le circostanze che gli hanno fatto perdere il suo appartamento nel 1992 furono gravi. Una scintilla di una presa elettrica aveva incendiato l’appartamento. Dipinti di Miró, Chagall e Schiele, una ceramica di Picasso, una collezione di vasi e mobili Jugendstil, innumerevoli lettere e documenti: tutto distrutto. Helmut Berger perse essenzialmente tutto ciò che aveva all’epoca e che aveva un qualche valore. “È meglio nella vita abituarsi a dire addio”, ha scritto nel suo libro; è una di quelle frasi che uno come Berger scriveva e che, quando viene pronunciata ad alta voce, assume l’aura di un’entrata in scena dirompente.
Helmut Berger è uno che di addi ne ha dovuto dire tanti. Il più doloroso forse è proprio quello alla sua grandezza e a una vita destinata alla vetta del cinema mondiale. Sempre combattuto tra i sussurri del suo angelo (come lui definiva i sensi di colpa per le azioni più estreme e per i suoi continui deragliamenti dalla morale comune e religiosa) e le tentazioni di essere unico, diverso.
“Purtroppo il demone era troppo spesso più forte”, arriva ad ammettere nelle sue pagine.
Era sempre più difficile essere più eccessivi di tutti gli altri. In quella “alta società” della capitale che Berger frequentava e in cui la cocaina scorreva a fiumi, per far sembrare noiosi tutti gli altri si diede al consumo sfacciato, alla luce del sole. Si fece creare da Bulgari una cannuccia d’oro che portava al collo con una catenella. Negli ultimi anni della sua vita, però, l’angelo è tornato a parlare attraverso la sua bocca: «Le droghe sono l’opera del diavolo! La droga mi ha trasformato nell’opposto di quello che sono.»
Bad Taste Party
Nel giorno del suo trentesimo compleanno, Helmut Berger era il giovane attore più richiesto del suo tempo, e non solo era straordinariamente bello, ma era anche un interprete dalle doti uniche. La intitolò Bad Taste Party quella festa e invitò al nightclub Jackie O. La Roma che voleva essere nei posti che contavano andò in pellegrinaggio a quella celebrazione fastosa. I Borghesi, i Niarchos, le sue amiche Romy Schneider e Brit Ekland. Vent’anni dopo ci fu un altro party, tra i cui invitati spiccavano celebrità del calibro di Roman Polanski e Jack Nicholson: il canto del cigno di una società sulla via del declino e soprattutto di un uomo che si era avvicinato troppo al Sole nel tentativo di essere ammirato da tutti e ormai precipitava senza possibilità di recupero.
Forse tutta la fama e tutti gli eccessi nella metà degli anni 70, per un uomo tormentato come lui, erano semplicemente troppo. A un certo punto, a un vero genio non resta altro che interpretare se stesso?
Quando il suo amatissimo Visconti morì nel 1976, Helmut Berger aveva 32 anni e scelse il ruolo che, in un certo senso, aveva sempre interpretato: il vedovo che ha perso la testa. la depressione gli annegò la mente in un mare di oscurità.
Un anno dopo, rischiò di morire per un eccesso di stupefacenti. Tentato suicidio, ammise.
I grandi ruoli – i suoi personaggi leggendari – erano ormai alle sue spalle: Il giovane erede Martin von Essenbeck ne La caduta degli Dei di Luchino Visconti, il fratello consumato di Dominique Sanda ne Il giardino dei Finzi-Contini di Vittorio de Sica, e poi il maestoso Ludwig II.
Eppure era passata solo una dozzina d’anni dal momento in cui tutto era cominciato. Nel 1964 Luchino Visconti, impegnato nelle riprese di Vaghe stelle dell’Orsa resta folgorato da questo vent’enne austriaco che era arrivato in Italia da pochissimo e che sembrava scolpito da un artista in stato di grazia. Oltre 4 decadi di differenza li separano, eppure la loro relazione d’amore, pur tra alti e bassi, non tiene conto di nessun dato anagrafico.
Nel 1969, l’aristocratico maestro del cinema lo consacra attore di fama mondiale con La caduta degli dei, dove sullo sfondo della decadente Germania nazista, Berger dà vita a un personaggio dall’animo corroso dal vizio, un ricco rampollo con tendenze autodistruttive e pedofile che raggiunge l’apice nella scena in cui si “traveste” da Marlene Dietrich e che gli fa guadagnare una nomination al Golden Globe per il miglior attore emergente.
L’anno dopo, accanto a un’altra formidabile attrice dal volto angelico, Dominique Sanda, approda alla corte di Vittorio De Sica nel ruolo di Alberto in Il giardino dei Finzi Contini con cui vinceranno l’Oscar come miglior film straniero. Lavora con Duccio Tessari in Una farfalla con le ali insanguinate (1971).
Nel 1973 gira ben 5 film: tra gli altri divide la scena e fa sciogliere d’amore la superstar Elizabeth Taylor in Mercoledì delle ceneri di Larry Peerce (1973) ed è Arconati ne La colonna infame di Nelo Risi (1973) basato sul saggio di Alessandro Manzoni.
Ma il ruolo più importante è ancora una volta in un’opera gigantesca di Visconti: Ludwig basata sulla vita di Ludwig II, re di Baviera dal 1864 al 1886, talvolta noto come il “Re Folle” o il “Re Cigno”, data la sua predilezione per l’iconografia delle opere di Wagner.
Il film segue il sovrano dalla sua incoronazione fino alla sua morte, immediatamente dopo la sua deposizione da re. La sua è una carriera gloriosa per certi versi, deplorevole per altri. Che Ludwig sia pazzo o meno di per sé resta un esteta, del tipo che sarebbe stato più felice di godersi i piaceri culturali e carnali della Parigi della sua epoca piuttosto che vivere nel mondo soffocante e legato ai rituali della monarchia mitteleuropea.
L’ultimo film che girano insieme Visconti e Berger è Gruppo di famiglia in un interno (1974), dove veste i panni di un amante mantenuto. Poi la separazione dal grande regista (che soffrirà molto per il suo allontanamento e per non averlo visto prima di morire) e l’inesorabile declino.
La sua carriera procede all’incredibile ritmo di almeno un film all’anno, una media che tiene, tra eccessi, polemiche e crolli fisici fino alla fine del secolo.
Nel XXI secolo, tra cinema indipendente e reality imbarazzanti, appare come un’icona scintillante nei panni dell’anziano Saint Laurent diretto da Bertrand Bonello (2014) e nel ruolo di un leggendario seduttore e libero pensatore tedesco in Liberté di Albert Serra (2019).
Sofferente da tempo ai polmoni l’attore aveva annunciato il suo ritiro nel 2019, ma come la fenice ha forse sognato fino all’ultimo di risorgere dalle sue ceneri. O forse no. Quello che è certo lo si può condensare in una delle sue ultime dichiarazioni: Ho vissuto tre vite, parlando in quattro lingue. Non rimpiango nulla.
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