CANNES – Parte con le immagini girate con un iPhone e postate su snapchat: una donna che si prepara per la notte, un criceto nella sua gabbietta… Inquietanti ma non sai neppure perché. E va avanti per un buona mezz’ora lasciando lo spettatore interdetto, a vagare tra situazioni e personaggi visti da lontano e non ben identificati. Stiamo parlando di Happy End, il nuovo film di Michael Haneke, in concorso a Cannes, accolto da reazioni contrastanti, da qualcuno definito “una soap opera satanica”, in sala dal 30 novembre con Cinema di Valerio De Paolis. Il regista austriaco, già due volte Palma d’oro con Il nastro bianco e Amour, ama avvolgere nel mistero questo lavoro, anzi ogni suo lavoro. Una sinossi di appena due righe (“Intorno a noi il mondo, e noi, in mezzo, ciechi. Istantanea di una famiglia borghese europea”) e risposte mai troppo nette alle domande dei giornalisti: “Siete voi a dover interpretare e spiegare il film. Io do allo spettatore gli indizi, ma cerco di raccontare il meno possibile e lascio alla sua testa e al suo cuore il resto del lavoro”.
Ed ecco gli indizi di questo giallo non senza vittime. Ci troviamo a Calais, luogo simbolo dell’emigrazione, nel cuore di una famiglia altoborghese senza cuore. Jean-Louis Trintignant è Georges Laurent, il patriarca, ormai anziano e con segni di demenza e pulsioni suicide, dopo che la moglie è morta in seguito a una lunga agonia (con esplicito riferimento alla vicenda di Amour). Georges ha due figli: Thomas (Mathieu Kassovitz) è un medico libertino, al secondo matrimonio e con una infuocata relazione che si sviluppa soprattutto via chat; Anne (Isabelle Huppert) è la manager del gruppo, fredda e controllata, è lei la capofamiglia. Ha un figlio, Pierre (Franz Rogowski), non altezza delle aspettative, che preferisce ubriacarsi e combinare guai, e ha un fidanzato straniero (Toby Jones) che lavora in un importante studio di avvocati e sembra fatto apposta per risollevare le sorti dell’azienda di costruzioni. Intanto in casa arriva un nuovo membro del clan, la piccola Eve (Fantine Harduin), figlia di primo letto di Thomas, una tredicenne che vive attaccata al suo smartphone e tiene il padre sotto controllo. Accanto a loro anche i domestici maghrebini Rachid (Hassam Ghancy) e Jamila (Nabiha Akkari) che vivono nella dependance della villa.
“Ho impiegato quasi cinque anni a fare un nuovo film dopo Amour – racconta il regista – stavo lavorando a un altro progetto Flashmob, che poi non è andato in porto. Così ho travasato alcuni elementi di quel film in Happy End“. Il tema, più che la borghesia, è la società contemporanea nel suo complesso, siamo in Francia ma potremmo essere in Germania o in Austria, dice lui stesso. “Cerco di attraversare la vita con gli occhi aperti e non potevo non parlare della società del nostro tempo, del nostro modo di vivere autistico, dell’accecamento: è qualcosa che io personalmente sperimento tutti i giorni”.
Qualcuno parla di Happy End come di un seguito di Amour, anche per la presenza del grande Jean-Louis Trintignant. “Non sono così autoreferenziale – ribatte il 75enne Haneke – però Amour è un film fortemente legato alla mia vita privata e l’esperienza che me l’ha ispirato mi segna ancora, quindi l’ho voluta citare di nuovo”.
A proposito dei social media e della società digitale, uno dei bersagli dell’aspra critica alla disumanità contemporanea, spiega: “I social media fanno parte del mondo che è cambiato così tanto negli ultimi vent’anni, come mai prima nella storia dell’umanità, ma non credo che questo film sia diverso dagli altri miei lavori, a questo proposito, parlo sempre del comportamento umano e della comunicazione e spero che i social media non siano la cosa che si nota di più”. Quindi accetta di approfondire il concetto: “Siamo inondati di informazioni che però ci rendono sempre più sordi e ciechi. Abbiamo l’illusione di essere informati, ma non sappiamo niente. Un tempo un contadino conosceva il suo villaggio e questo gli bastava, oggi, lo stesso contadino ha la parabola e il computer e pensa di essere connesso al mondo, ma tutte quelle informazioni lo toccano solo in superficie, non sono la realtà, sono solo un’illusione”.
Isabelle Huppert, che grazie a La pianista ha avuto qui a Cannes il premio per l’interpretazione femminile, parla del loro rapporto speciale: “Mi chiese di fare Funny Games, ma non potevo, poi è arrivato La pianista e da allora abbiamo continuato a lavorare insieme. Il suo cinema è molto vario, ci sono film intimi, film più politici come questo, altri di taglio storico come Il nastro bianco. Nel suo modo di lavorare c’è una grande precisione a partire dalla sceneggiatura e questo, al contrario di quello che si pensa, rende più liberi gli attori”.
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