CANNES – Si stenta a riconoscere la mano dell’autore che nel 2003 vinse la Palma d’oro con Elephant, oppure la ricerca estrema di Gerry, nel nuovo film di Gus Van Sant The Sea of Trees, in concorso nello stesso giorno di Mia madre di Nanni Moretti certamente per la sia pur generica assonanza tematica. Anche qui, infatti, si parla di malattia e di elaborazione del lutto ma con tutt’altri esiti. Ci sono stati anche dei fischi alla proiezione per la stampa. Per il protagonista Matthew McConaughey “è legittimo fischiare”, mentre il regista controbatte sereno: “Anche Elephant all’inizio non era piaciuto ad alcuni, ma poi in molti si sono ricreduti”.
McConaughey è praticamente irriconoscibile con gli occhiali e una barbetta triste nel ruolo principale. L’attore, che l’anno scorso vinse l’Oscar grazie a Dallas Buyers Club, è qui Arthur Brennan, uno studioso di fisica dall’aspetto apatico e tremendamente stanco che all’inizio del film vediamo partire per il Giappone. Non pensa di tornare indietro, com’è evidente dal fatto che lascia le chiavi sul cruscotto dell’auto. Si sta recando infatti ad Aokigahara, anche nota come la foresta dei suicidi, un intricato, enorme e verdissimo bosco che sorge ai piedi del Monte Fuji dove i giapponesi, ma anche molti occidentali, vanno a togliersi la vita. Lo sceneggiatore Christopher Sparling, quello di Buried, si è ispirato a questi luoghi magici e, secondo la tradizione locale, popolati di spiriti e presenze, per costruire una storia consolatoria tutta giocata su due piani temporali che il regista definisce un vero e proprio puzzle. Da una parte le disavventure del professor Brennan, che sta per prendere una dose letale di barbiturici quando si rende conto di non essere solo nel bosco, dall’altra i numerosi flash back che ci spiegano i motivi che lo stanno spingendo al gesto estremo. “Sono arrivato a questo progetto – dice ancora Van Sant – solo dopo che la sceneggiatura era stata scritta, mi ha conquistato anche per il suo lato terribile, quasi horror anche se non è un film dell’orrore ma un dramma sulla dimensioni spirituale”.
Tutto è altamente metaforico, con venature soprannaturali, nell’incontro tra Brennan e un uomo d’affari giapponese piuttosto malconcio (Ken Watanabe) che vuole mettere fine alla sua vita dopo essere stato declassato a impiegato semplice. I due, zoppicanti e feriti, si aiutano a vicenda, a fasi alterne, ma intanto si perdono nel bosco, senza cellulare e in abiti del tutto inadatti alle intemperie e alla situazione. Cadute rovinose, alluvioni improvvise e altri guai, come in un survival movie, li spingono a ritrovare l’istinto di sopravvivenza, così come un tumore al cervello diagnosticato alla moglie di Brennan (Naomi Watts) aveva riportato l’armonia in una coppia fino a un momento prima stremata da litigi e incomprensioni a causa di un tradimento di lui e dell’alcolismo di lei. Del resto non sarà la malattia a portarsela via ma un altro assurdo imprevisto che non riveliamo ma che lascia un po’ di stucco.
Insomma, Gus Van Sant lascia briglia sciolta alla sua vena sentimentale (sulla falsariga di film come Scoprendo Forrester e L’amore che resta) e confeziona un film commerciale che decisamente sfigura nel concorso di Cannes. E purtroppo il sessantaduenne regista americano rivela che non ha neanche girato nell’autentica foresta di Aokigahara – vero cuore pulsante della storia – ma nel più casalingo Massachusetts. Però Van Sant è andato a visitarla: “Sono stato lì subito dopo le riprese a Tokyo, è un ambiente così potente da poter diventare un vero e proprio personaggio del film.
The Sea of Trees – che conta nel cast tecnico anche il montatore italiano Pietro Scalia, due volte premio Oscar – sarà nelle nostre sale con Lucky Red.
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