L’elaborazione del lutto, il senso di perdita che accompagna i migranti nel loro accidentato percorso e spunti da thriller con echi western sono gli ingredienti forti di Sopravvissuti, opera prima di Guillaume Renusson, vincitrice del Rome Independent Film Festival e in sala dal 21 marzo marzo con No.Mad Entertainment. Il film si apre su Samuel (Denis Ménochet), un uomo che ha subito un grave incidente d’auto in cui ha perso la vita sua moglie. Roso dai sensi di colpa, lascia la figlioletta al fratello e si isola in una baita nel cuore delle Alpi italiane dove restano i segni delle ultime giornate felici. Ma una notte una giovane donna straniera (Zar Amir Ebrahimi) trova rifugio nella sua casa. È afghana e vuole attraversare il confine dall’Italia alla Francia, è ricercata dalla polizia ma dovrà affrontare anche un piccolo gruppo di “giustizieri” civili.
Nonostante gli elementi di genere, il film sembra attingere a storie vere, quelle dei migranti.
Sì, ci sono dentro molte storie vere, non una in particolare, perché ho incontrato molti rifugiati quando ancora ero uno studente di cinema. In particolare ho avuto rapporti con una famiglia dall’Angola. In seguito mi sono occupato del tema nei miei primi cortometraggi e ho cominciato a esplorare il parallelo che c’è tra le dinamiche del lutto e il dolore dei profughi, che perdono la patria e anche le persone care lungo il percorso. Samuel è depresso, vuole isolarsi, fuggire dagli esseri umani, ma trova un legame istintivo con questa donna in fuga che ha rubato il giaccone di sua moglie. Il rapporto tra i due è intimo e non politico, ma diventa anche politico. Perché la frontiera è come un termometro dello stato generale di una società.
La location ha un’importanza fondamentale nel film, questa montagna invernale, ricoperta di neve, gelida e impervia, che vediamo però fuori dalla dimensione turistica, perché gli impianti di risalita sono fermi e gli hotel chiusi.
La prima volta che sono andato in quella valle, ricordo che c’era la luna e le ombre si proiettavano sulla neve. E’ stata un’esperienza visiva che mi ha influenzato, era come se ci fossero dei fantasmi attorno a noi. Ho incontrato alcuni montanari e per loro, come per i marinai, è un dovere salvare chi è in pericolo di vita, è la legge della montagna. Tuttavia ci sono anche persone che perseguitano i migranti spinte dalla xenofobia.
Come ha scelto i due attori, molto intonati?
Facendo dei provini. Curiosamente Denis Ménochet è un migrante in un altro film, As Bestas, che però è stato girato dopo, ma trovo che ci sia un legame tra questi due ruoli. Zar Amir Ebrahimi mi è piaciuta subito perché ha un volto in cui lo spettatore può credere. Lei stessa ha lasciato l’Iran ed è bandita dal governo, ha una storia simile a quella dell’afghana Chereeh, è una donna resiliente e fragile allo stesso tempo oltre che un’attrice bravissima. Tra l’altro il suo grande successo con Holy Spider è venuto dopo ed è stato molto emozionante quando ha vinto il Premio per l’interpretazione a Cannes, consegnato proprio da Denis. La prima volta che li ho visti insieme, alle prove, ho sentito che funzionava benissimo il contrasto fisico tra loro: lui è grosso e forte ma allo stesso tempo molto debole interiormente, lei molto delicata nel corpo ma ha la forza morale di qualcuno che ha attraversato le frontiere. Quando sono sulla neve diventano due piccoli puntini in lontananza.
E’ vero che le chiavi che il personaggio di Chereeh mostra nel film sono le chiavi di casa di Zar?
Sì, una cosa commovente. Lei mi ha detto che conserva queste chiavi anche se sa che non potrà mai tornare a casa a Teheran, la stessa frase l’avevo vista scritta a una mostra di fotografie e mi aveva colpito tantissimo.
Avete iniziato le riprese nel 2020.
Sì, poi c’è stato il Covid. Ero pronto a tutto per il mio primo film ma non alla pandemia. Non dimenticherò mai il momento in cui abbiamo dovuto interrompere il set e tornare a casa. Eravamo noi i sopravvissuti, quelle quaranta persone Siamo rimasti sempre in contatto, specialmente con Denis che ha vissuto il periodo della pandemia in uno stato quasi mistico e siamo diventati davvero amici.
Il film parte come storia intimista e sfocia nella caccia all’uomo.
Per me è un western e un film di redenzione allo stesso tempo. Samuel è un cowboy solitario e lei un’indiana perduta.
Quali sono le fonti di ispirazione che l’hanno guidata?
Ci sono diversi film che mi hanno ispirato: Essential Killing di Jerzy Skolimowski e Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure di Akira Kurosawa, ma anche un memorabile film italiano girato nella neve, Il grande silenzio di Sergio Corbucci. Di questo c’è stata una riedizione alcuni anni fa. Lo adoro, c’è un folle Klaus Kinski, e può essere letto come una denuncia del fascismo. Anche Dersu Uzala è la storia di una amicizia tra due estranei come White Paradise che non è una storia d’amore, ma di solidarietà umana e mostra come puoi diventare amico di qualcuno che non parla nemmeno la tua lingua e con cui non hai nulla in comune.
Il film è uscito in Francia. Com’è andato?
Il distributore ha voluto aspettare gennaio di quest’anno, per non sovrapporsi a Holy Spider e As Bestas e poi perché White Paradise è invernale. Il successo di quei due film ci ha molto aiutato e abbiamo raggiunto 100mila spettatori.
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